Il triangolo in tensione e le soluzioni pragmatiche
[L’articolo di Marta Dassù sulla relazione tra democrazia, stato-nazione e globalizzazione]
[La risposta di Paolo Savona]
[Il commento di Andrea Montanino]
C’è incompatibilità fra globalizzazione, democrazia e sovranità nazionale? Questa domanda, che va sotto il nome di trilemma di Rodrik, è di moda da un po’ di tempo. Incompatibilità può solo voler dire che in caso di conflitto, uno dei tre corni del dilemma deve essere scarificato. Secondo una tesi insidiosa, l’unico modo per governare la globalizzazione sia sacrificare la democrazia. Secondo un’altra, altrettanto insidiosa e cara ai nostalgici dello statalismo, per salvare democrazia e sovranità bisogna fermare la globalizzazione. Cominciamo con definire i termini.
Tra definizioni teoriche e realtà
Globalizzazione significa che beni, capitali e servizi (in parte anche le persone) circolano liberamente. La dottrina economica e l’esperienza dicono che ciò è un bene per l’umanità, ma anche che crea problemi, distorsioni e diseguaglianze. La libertà assoluta esiste però solo nella fantasia di alcuni fanatici libertari, e paradossalmente anche in quella dei nostalgici dello statalismo. A causa dei problemi che crea, la globalizzazione è in realtà ovunque regolata: in parte e male a livello internazionale, in modo ancora prevalente anche se spesso velleitario a livello nazionale.
Non basta decidere una regola; bisogna anche applicarla effettivamente. È relativamente facile applicare le regole ai beni e alle persone, meno ai servizi, ancora meno ai capitali. Le regole hanno un loro costo (non solo finanziario) e c’è un limite oltre al quale esso supera i vantaggi. Ci vuole anche un meccanismo da tutti accettato, di preferenza a carattere giurisdizionale, per dirimere i contenziosi. Ciò ci porta agli altri due corni del trilemma.
Lo stato è assolutamente sovrano solo per chi è rimasto al trattato di Westfalia; sorprende vedere quanto costoro siano ancora numerosi. Per prima cosa, la sovranità è limitata dai fatti. Uno stato è libero di decidere quello che vuole, ma altrettanto libero sarà il vicino che si ritiene eventualmente danneggiato; il dilemma cui è confrontato il Regno Unito nella gestione di Brexit ne è una perfetta illustrazione. Tutte le sovranità si condizionano a vicenda, ma i grandi paesi sono a priori più “sovrani” dei piccoli. Essi godono anche del vantaggio di avere più mezzi per influenzare le regole internazionali, eventualmente per imporle, oppure per violarle impunemente.
Alcuni indicano piccoli paesi come Singapore o la Svizzera come esempi di “piccolo è bello”. In realtà sono esempi di parassiti virtuosi che possono prosperare solo fino a quando i grandi si accollano l’onere della stabilità del sistema. Anche i grandi hanno interesse alla stabilità e sono legati a un certo rispetto delle regole. La sovranità di tutti è limitata inoltre dal diritto internazionale. In alcuni casi (Germania e Italia per esempio) questo principio è esplicitamente consacrato nella Costituzione. Accettare che la sovranità non è mai assoluta, ci porta a smontare un altro mito dell’Ottocento: che essa sia indivisibile, cioè non possa essere condivisa ed esercitata a vari livelli.
Infine, c’è la democrazia. L’eredità della rivoluzione francese, cioè di un fenomeno relativamente recente, ci ha abituati a pensare che la nazione sovrana sia il suo contenitore naturale; anche la democrazia, ignorando l’esperienza delle federazioni, è quindi considerata indivisibile nel senso che la piena legittimità può appartenere a un solo livello di governo. Intesa come espressione esclusiva della volontà popolare dimenticando che deve essere prima di tutto fondata sul rispetto delle libertà individuali, la democrazia esiste solo nella mente di chi è infatuato da Rousseau. Per fortuna nelle democrazie che conosciamo e che amiamo, c’è molto Jefferson e Montesquieu e poco Rousseau. In primo luogo la democrazia è normalmente rappresentativa, cioè si esercita attraverso un Parlamento. Inoltre anche i poteri del Parlamento sono limitati da una Costituzione (non importa se scritta o no) che protegge i diritti individuali, anche economici. La Costituzione stabilisce anche un equilibrio di poteri, e definisce le prerogative esclusive del governo, valide anche quando esso è emanazione del Parlamento.
Miti da sfatare
Uno dei miti sfatati nel mondo contemporaneo è quello della supremazia della politica su tutte le attività umane; c’è ormai la convinzione che l’ordinato progresso della società richieda invece che alcune funzioni dello stato siano sottratte all’arbitrio della decisione politica. I tre esempi più significativi sono l’indipendenza della magistratura, quella delle banche centrali nel governo della moneta, e le istituzioni preposte all’applicazione delle regole di tutela della concorrenza che costituiscono forse l’elemento più importante della regolazione dei mercati. Questo processo di limitazione della sfera dell’arbitrio delle decisioni politiche, ha avuto un peso notevole anche in Europa. Senza una Banca Centrale indipendente, non avremmo l’euro. Senza la Corte di Giustizia non avremmo un diritto europeo. Senza la competenza esclusiva della Commissione in materia di concorrenza e senza l’obbligo del mutuo riconoscimento delle regole nazionali non necessarie per proteggere interessi pubblici prioritari (salute, ambiente, sicurezza ecc.), non avremmo il mercato unico.
I tre corni del trilemma sono quindi concetti relativi e fluidi; più che di incompatibilità, bisognerebbe parlare di tensione o, come si diceva quando il maoismo era di moda, di “contraddizioni non antagoniste”. Il problema è capire come la tensione può essere composta. I corni del trilemma devono essere considerati interdipendenti: la globalizzazione deve fornire carburante allo sviluppo, le istituzioni sovrane devono governarne i risultati per il bene collettivo e la democrazia deve garantire il consenso. Una condizione è il senso del limite. Gli attori della globalizzzione reclamano comprensibilmente il massimo di libertà, ma devono capire che in caso di scontro aperto dovranno piegarsi a chi detiene la sovranità. Un esempio è costituito dalla reazione popolare, sbagliata finché si vuole ma per il momento non sormontabile, contro nuovi trattati di liberalizzazione del commercio. D’altro canto la politica deve comprendere i limiti oggettivi della sovranità. Chi è giustamente preoccupato della difesa dei valori democratici, non deve scordare che alla democrazia si chiede innanzitutto di produrre risultati concreti per il bene dei cittadini. Se l’affermazione del valore assoluto del binomio democrazia/nazione cela la realtà che la prima è inefficace e la seconda è impotente, il risultato sarà (come già sta avvenendo) la crescita di forze antisistema che mettono in serio pericolo la stessa democrazia.
La composizione delle tensioni fra i tre corni del trilemma è quindi necessaria, ma potrà essere solo graduale e pragmatica, dettata dalle circostanze più che dalle dottrine. Un paradosso è che la tensione si manifesta con acuità particolare nell’Unione europea, in teoria l’istituzione che dovrebbe essere meglio equipaggiata per favorire una sintesi. Una spiegazione è che in Europa si sono creati vincoli permanenti e irreversibili che toccano molto da vicino il cuore della sovranità nazionale e la responsabilità delle istituzioni democratiche. L’Ue è un insieme di stati sovrani e nessuno può obbligare un membro a rispettare le regole; tuttavia la rete di interdipendenze legali e di fatto è tale che in caso di conflitto grave l’unica soluzione è che il membro recalcitrante esca dall’Unione accettando di subirne tutte le conseguenze.
Un esempio è fornito dal leader greco Alexis Tsipras: impegnato un braccio di ferro fra la “democrazia greca” e quella degli altri 18 paesi membri dell’euro, ha dovuto scegliere fra piegarsi e uscire – infine piegandosi. È una situazione che potrebbe riproporsi con l’Ungheria. Al punto in cui è arrivata l’Ue, un divorzio ordinato e consensuale fra i membri dell’euro non è possibile, mentre un crollo del sistema produrrebbe inevitabilmente danni enormi. Questa è però anche la ragione per cui l’Ue è troppo facilmente descritta dai suoi nemici come una prigione governata da forze oscure in cui si resta solo perché i costi dell’abbandono sarebbero insopportabili.
Legittimità preventiva?
Ciò ci porta alla vecchia questione del deficit democratico. Non ha torto chi sostiene che si tratta di un falso problema; dopo tutto, le decisioni più importanti sono prese da governi democraticamente legittimati sul piano nazionale e da istituzioni comuni anch’esse democratiche come il Parlamento europeo. La spiegazione non è tuttavia del tutto convincente. In primo luogo, a livello nazionale le procedure europee possono essere percepite come un modo per esautorare i Parlamenti nazionali a profitto dei governi che conducono i negoziati a Bruxelles. Esistono per questo problema rimedi pragmatici, utili a patto che un maggiore coinvolgimento dei Parlamenti nazionali non paralizzi completamente il processo europeo. Resta però il fatto che l’intero sistema, così diverso da ciò a cui i cittadini sono abituati a casa loro, è percepito come estraneo e poco trasparente. Inoltre, il carattere prevalentemente intergovernativo delle istituzioni crea la sensazione che alcuni paesi sono “più uguali” degli altri.
Non c’è quindi altra soluzione che accettare definitivamente che democrazia e sovranità non sono indivisibili e cercare di ricreare il massimo di legittimità democratica a livello europeo. Tralascio qui la ricorrente discussione se l’esistenza o meno di un “demos” europeo sia la premessa indispensabile per una democrazia europea; non dispiaccia ai cultori dello stato-nazione, ma la storia delle nazioni che conosciamo non ci dice se sia il demos che ha permesso alle istituzioni di sviluppare la loro legittimità, o se sia stata l’attività delle istituzioni a favorire l’emergere di un demos comune. Sappiamo che non è un processo semplice, che richiede un grado di fiducia reciproca oggi assente. Il rafforzamento della legittimità democratica delle istituzioni comuni (Parlamento e Commissione) potrà solo essere graduale. La strada è percorribile a condizione di ricordare che solo l’accordo su politiche giudicate utili e necessarie può giustificare lo sviluppo delle istituzioni.
Alla fine, anche coloro che privilegiano su tutto il resto il binomio democrazia/sovranità nazionale faranno bene, situando l’Europa nel mondo contemporaneo, a ricordare quanto detto all’inizio: la sovranità è la stessa per tutti, ma i grandi paesi sono più sovrani degli altri.