Il triangolo complicato tra Washington, Pechino e il Vaticano
Quando Xi Jinping atterrò negli Stati Uniti per la sua prima visita ufficiale, nel settembre 2015, in quelle stesse ore a Philadelphia Jorge Maria Bergoglio teneva una messa davanti a oltre un milione di persone. Il papa e il presidente cinese non si incontrarono, ma sul volo di ritorno il pontefice rivolse il suo pensiero alla “grande nazione” asiatica. Letteralmente: “amo il popolo cinese e mi auguro che ci sia la possibilità di avere buoni rapporti.”
Nessuno mise mai pubblicamente in dubbio la casualità della coincidenza temporale tra le due visite. Ma, all’alba delle prime accuse di spionaggio, la stampa cinese non mancò di sollevare qualche perplessità sull’accoglienza rivolta al Santo Padre, arrivando persino a suggerire l’intenzionalità della scelta. Secondo dati di MediaMiser, lo spazio conquistato in quella occasione dal pontefice su social media e organi d’informazione ridimensionò radicalmente la portata storica della missione cinese, proprio mentre le relazioni tra le due superpotenze cominciavano ad emettere i primi scricchiolii.
Seppur dietro le quinte, i riverberi della politica americana hanno sempre avuto ripercussioni sulle turbolente relazioni tra Pechino e Santa Sede, interrotte con l’ascesa al potere del governo comunista nel 1949 e la promozione di una Chiesa nazionale attraverso le “tre autonomie”: autogoverno, autosufficienza e auto-propagazione. All’espulsione dei missionari stranieri e dell’internunzio apostolico Antonio Riberi ha corrisposto sei anni più tardi la fondazione dell’Associazione patriottica cattolica cinese, la “chiesa ufficiale” istituita da Pechino nel 1957 in contrapposizione alla “chiesa sotterranea” rimasta segretamente fedele al Papato. I contatti sarebbero ricominciati solo negli anni ’80, alla fine delle persecuzioni maoiste, con la scarcerazione di Tang Yee-ming, titolare della diocesi di Canton. Ma le restrizioni contro la comunità cattolica proseguono tutt’oggi, e la Santa Sede continua a riconoscere come legittimo il governo di Taiwan, scelta diplomatica che la Cina non accetta da nessuno dei suoi partner; proprio a Taiwan Riberi fu accolto dal governo nazionalista messo in fuga da Mao Zedong.
Per tre decadi, la danza diplomatica tra la Cina e il Vaticano è avvenuta sulle note di una madrigale a tre voci. Così, quando lo scorso 18 settembre il segretario di stato americano Mike Pompeo si è scagliato contro il recente riavvicinamento della Santa Sede a Pechino, il pressing è parso rispondere innanzitutto a necessità elettorali, ma non solo. “Da nessuna parte al mondo la libertà di religione è così in pericolo come in Cina” ha sentenziato Pompeo, accusando la Santa Sede di svendere la propria “autorità morale”. Le preoccupazioni americane trovano fondamento nella controversa firma dell’accordo sino-vaticano che dal 2018 permette alle due parti di procedere congiuntamente alle nomine vescovili. L’intesa, definita provvisoria, è stata tacitamente prolungata il 22 ottobre di quest’anno, nonostante i toni intimidatori di Washington e le pressioni denunciate dai fedeli.
Non è chiaro quanti negli Stati Uniti siano realmente a conoscenza dei negoziati. Ma buona parte dei cattolici americani più conservatori non ha mai amato le aperture di papa Francesco in tema di divorzio e famiglie “anticonvenzionali”. E la Cina è stata il bersaglio prediletto delle frecciate trumpiane, che continueranno per tutto il periodo di transizione alla presidenza Biden. Che si trattasse di accuse di persecuzione religiosa, furto di tecnologia o mire neocolonialiste poco importava, purché servisse a mettere in difficoltà il “rivale strategico” e a distogliere lo sguardo dalla catastrofica gestione americana dell’epidemia. Ma i calcoli politici di Trump spiegano solo in parte la “conversione religiosa” della Casa Bianca dopo tre anni di silenzio.
Come ci spiega Zhang Juyan, docente presso l’UTSA e autore dello studio in “The Sino-Vatican faith diplomacy: Mapping The Factors Affecting Bilateral Relations”, l’ingerenza americana negli affari sino-vaticani ha una storia di oltre un secolo. Tutto è cominciato nel 1918, quando la Cina rifiutò la nomina del nuovo nunzio papale Joseph Petrelli accogliendo le richieste di Washington che ne temeva le simpatie tedesche. All’epoca, tra Washington e la Santa Sede non scorreva buon sangue. L’impiccagione della cattolica Mary Surratt, accusata di aver partecipato all’assassinio di Abramo Lincoln, suscitò una profonda avversione verso la Chiesa di Roma che portò al congelamento delle relazioni diplomatiche dal 1867 al 1984, anno in cui fu istituita la Nunziatura apostolica negli USA.
Fino alla presidenza di John F. Kennedy, la Santa Sede è stata vista (in certi ambienti intellettuali, ma erano idee condivise da parti importanti dell’establishment e dell’opinione pubblica) come un’istituzione “pericolosa, potente e antidemocratica”. Ma la Guerra Fredda e la condivisa avversione per il comunismo aiutarono a ricucire lo strappo, riposizionando il Vaticano sull’asse atlantico. Poi vennero l’11 settembre, la crociata americana contro il jihad e la guerra in Iraq. Tuttavia, il sangue sparso in Medio Oriente e il grande disappunto della Santa Sede non impedirono agli Stati Uniti di ergersi a difensore dei diritti umani in Cina, in antitesi alle sistematiche violazioni attribuite al regime di Pechino.
Memore delle trame statunitensi e vaticane nello spazio sovietico, come l’”Holy Alliance” Reagan-Wojtyla degli anni ‘80, l’establishment cinese continua a vivere nel terrore di una “rivoluzione colorata”. Uno scenario rievocato nel giugno 2007 dall’invito alla Casa Bianca del cardinale Joseph Zen, vescovo onorario di Hong Kong nonché tra i più agguerriti detrattori dell’accordo sino-vaticano, che considera una resa a Pechino. Tutto questo ha complicato ma non impedito il dialogo del partito comunista con le autorità religiose, specie quando le cicliche criticità del contesto internazionale hanno reso necessaria una maggiore estroversione. E’ avvenuto all’indomani del massacro di piazza Tian’anmen (1989) in pieno isolamento diplomatico, in concomitanza con la candidatura cinese alle Olimpiadi del 2008, e alla vigilia della storica visita di Bill Clinton, che nel 1998 riavviò i contatti ufficiali tra le due sponde del Pacifico.
Se la storia è di suggerimento, l’accordo sino-vaticano del 2018 introduce dunque una nuova fase di apertura strategica. Davanti alla “guerra fredda 2.0” con Washington e all’impopolarità delle politiche repressive applicate a Hong Kong e nella regione musulmana dello Xinjiang, la liaison con la Santa Sede assume le caratteristiche di un’operazione cosmetica. La benedizione papale finora non è servita a smorzare le critiche dell’Occidente. Chissà che non si dimostri decisiva nel caso in cui gli insistenti appelli per la cancellazione dei Giochi invernali di Pechino 2022 diventassero realmente corali. Ma secondo fonti dell’agenzia di stampa cattolica Aci Stampa, il corteggiamento di Pechino non esula da considerazioni geopolitiche: “combattere il principale nemico unendo le forze con un nemico secondario è una vecchia strategia cinese”.
In questo la visione del partito comunista si discosta nettamente dalla missione ecclesiale perseguita dal Vaticano. Se per Bergoglio il controverso accordo è servito a frenare le pulsioni scismatiche della Chiesa cinese clandestina, per Pechino la firma implica inevitabilmente ripercussioni diplomatiche. Per settant’anni, due fattori hanno impedito il dialogo bilaterale: da una parte, il mancato riconoscimento cinese dell’autorità papale (avvenuto implicitamente con la firma dell’accordo) e, dall’altra, la negazione del principio “una sola Cina”, con cui Pechino rivendica la propria sovranità su Taiwan. Nonostante il pressing cinese, il Vaticano è rimasto l’unico Stato europeo a mantenere rapporti ufficiali con Taipei.
Secondo Zhang Juyan, la questione taiwanese rispecchia gli effetti dell’intrusione americana nei negoziati tra Repubblica popolare e Santa Sede. Con il miglioramento dei rapporti nello Stretto, al volgere degli anni 2000, l’isola democratica aveva perso centralità nei colloqui con le autorità vaticane, tanto che sulla terraferma parve meno impellente la necessità di strappare un riconoscimento diplomatico. Annunciando la proroga dell’accordo, il cardinale Parolin ha smentito comunque lo scenario di un imminente divorzio da Taiwan. Finora l’ambiguità sulle “due Cine” è servita a mantenere una posizione di forza nelle trattative con Pechino per una maggiore tolleranza religiosa. Ma il rinnovato interesse di Washington per “l’isola che non c’è” sembra aver riportato Taipei al centro del palcoscenico. E per il Vaticano sarà sempre più difficile mantenersi equidistante mentre il resto del mondo spende parole in sostegno di una maggiore inclusione dell’ex Formosa ai tavoli internazionali.
La genesi del dilemma vaticano sta nella collisione tra una vocazione atlantista e la necessità di proteggere i propri interessi pastorali: mentre la Cina è proiettata a diventare il paese con il maggior numero di cristiani entro il 2030, la percentuale di cattolici è in rapida diminuzione.
Anche per la Santa Sede la Repubblica popolare è un “mercato” a cui è difficile rinunciare. Secondo Zhang, la politica vaticana persegue “una distanza strategica” non troppo dissimile dalla conclamata “neutralità” con cui l’Unione Europea fronteggia la Cina senza abbracciare ciecamente le richieste americane, che resteranno tali anche con la nuova amministrazione. *
D’altronde le relazioni sino-vaticane precedono di molto la vecchia e la nuova “guerra fredda” tra Cina e Stati Uniti, attraversando 1400 anni di storia euroasiatica. Una storia fatta di sinergie culturali, scambi scientifici e commistioni religiose lungo quella Via della Seta che Pechino vuole resuscitare con grande disappunto americano.