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Il sistema Brasile: crisi politica profonda, anche senza colpo di Stato

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Il Brasile, che con le Olimpiadi alle porte ed i Mondiali di calcio del 2014 sembrava avere ricevuto l’imprimatur di nuova potenza globale, sta vivendo la peggior crisi politico-istituzionale della sua giovane democrazia – fondata sulla Costituzione del 1988, successiva al ventennio di dittatura militare.

Domenica 17 aprile la Camera dei deputati verde-oro ha aperto formalmente un processo di impeachment contro la presidente Dilma Rousseff. L’opposizione ha raccolto 367 voti, 25 più dei necessari, riuscendo a mettere in stato d’accusa la donna politica che fu la delfina di Lula. Gli onorevoli brasiliani, in alcuni casi, non hanno esitato a fornire al momento del voto le motivazioni più assurde: per il bene della mamma, dei figli, eccetera. Ma più seriamente, non sono mancate nemmeno apologie di noti torturatori del regime.

Tutti i problemi della prima presidenta donna derivano dalla bocciatura del bilancio 2014 da parte della Corte dei Conti brasiliana (TCU), avvenuta lo scorso ottobre – evento rarissimo: in passato accadde solo nel 1937. Il TCU ha bocciato le cosiddette “pedalate fiscali” della Rousseff, ovvero l’aver deciso di prendere in prestito 106 miliardi di reais (circa 25 miliardi di euro) da banche statali (Banco do Brasil, Caixa Economica Federal e Bndes) per decreto, senza passare per il parlamento, il tutto per “truccare” il bilancio di fine 2014.

Un crimine fiscale del genere, “se reiterato” – è sanzionabile con la “messa in stato d’accusa” del presidente, dice la costituzione all’articolo 85. Questo almeno sulla carta perché, ad onor del vero, anche Lula da Silva tra 2003 e 2010 e, prima ancora, Fernando Henrique Cardoso, avevano “pedalato”, seppure con un centesimo dell’intensità “ciclistica” di Rousseff.

Mentre i suoi avversari colgono l’occasione per accusarla di fondi neri per la sua ultima campagna elettorale e di aver quasi fatto fallire la compagnia energetica statale Petrobras, i supporter del partito della presidenta, il Pt da cui proveniva anche Lula, il tentativo di impeachment in atto è un “golpe parlamentare”. Per cercare di capire da che parte sta la ragione, analizziamo bene i fatti.

Per quanto riguarda il timing, le manovre generalmente considerate “golpe” si svolgono di solito in un breve lasso di tempo; in Brasile è dall’ottobre scorso – dopo la bocciatura del TCU – che è iniziata la via crucis istituzionale contro Rousseff: destinata a risolversi, nella migliore delle ipotesi, non prima del prossimo settembre.

Dalla prossima settimana (lunedì) sarà nominata una commissione ad hoc sull’impeachment; la responsabilità della decisione passerà al Senato, a cui basterà il voto della maggioranza semplice dei suoi 81 membri. Una formalità visto che al momento già 47 senatori hanno annunciato il loro ”ciao Dilma”; la presidenta, dunque, verrà sostituita pro tempore (180 giorni) da Michel Temer, il vicepresidente.

Durante i 180 giorni, il Senato, guidato dal presidente della Corte suprema, deciderà se allontanare o no Dilma dalla presidenza, per sempre. I voti necessari saranno in quel caso 54, e la decina di indecisi è corteggiata dall’uno e dall’altro fronte con la promessa di futuri incarichi e prebende. La “compravendita” dei voti è “una vecchia tradizione della politica brasiliana”, come testimonia con disincanto un ex reporter politico che seguì per il quotidiano Jornal do Brasil la prima elezione presidenziale del dopo dittatura, quella ‘indiretta’ del 1984-85 tra Tancredo Neves e Paulo Maluf, vinta dal primo a suon di assegni.

Passiamo ora ad analizzare il merito dell’impeachment; perché ci sia un colpo di stato “bianco” o “soft” che dir si voglia, il tempo non è infatti l’unica variabile. Su tutto, c’è per l’appunto il merito dell’azione di messa in stato d’accusa secondo i principi contenuti nella costituzione. Come classificare da questo punto di vista le pedalate” di Dilma?

Come detto, la Corte dei conti non intervenne in passato per sanzionare Lula, che nei suoi due mandati, dal 2003 al 2010, “pedalò” per 500 milioni di reais, né Cardoso, che dal 1994 al 2002 usò la contabilità creativa per chiedere in prestito dalla Caixa Economica Federal 434 milioni di reais. L’attuale procedura di impeachment si basa invece su un’operazione contabile di 106 miliardi di reais di “pedalate”, un’enormità rispetto al passato, e soprattutto un modus operandi reiterato e crescente negli anni.

Dilma sembra ormai appesa ad un filo, burocratico, come spiega bene Walter Fanganiello Maierovitch, presidente dell’Istituto italo-brasiliano Giovanni Falcone (di cui fu amico, avendolo aiutato a catturare a San Paolo Tommaso Buscetta). “Durante i 180 giorni Lula farà di tutto per bloccare l’impeachment, presentando ricorsi in serie alla Corte Suprema (STF)”. Ma difficilmente verrà mai presentato l’unico ricorso in grado di sciogliere nel merito il nodo della legittimità costituzionale della richiesta di impeachment: la Corte Suprema risponderebbe infatti senza dubbio che si tratta di un crimine fiscale, dunque che ci sono gli estremi per l’impeachment. E la narrativa del golpe – linea di difesa sui media brasiliani e ancor di più su quelli internazionali – verrebbe a cadere.

Ma oltre al problema legale, ce n’è uno politico per Dilma. Da tre anni la presidenta non ha più la maggioranza parlamentare per fare le riforme necessarie, e ha ha sempre meno appoggio tra le fasce più povere della popolazione, tradizionale feudo elettorale del Pt, le più colpite dall’attuale inflazione e disoccupazione, che si sentono tradite. Le promesse mancate e i tanti casi di corruzione hanno causato un disamore per cui nessuna manifestazione “contro il golpe” si è svolta in Brasile il 18 aprile – il giorno dopo la votazione alla Camera sull’impeachment.

Quella di Dilma è in realtà un’agonia politica che parte da lontano. Almeno dal 17 di giugno del 2013, quando milioni di brasiliani manifestarono contro il “caro vita” e servizi pubblici – dai trasporti alla sanità fino all’istruzione – indegni di una potenza come, a prescindere dalle contingenze attuali, è destinata a essere il Brasile eterno “paese del futuro”, non fosse altro per le sue dimensioni (è grande quasi il doppio dell’Unione Europea e le immense risorse di cui dispone: ferro, petrolio, acqua, terreni fertili, Amazzonia e ogni sorta di minerale prezioso.

Il Pt non diede risposte concrete, affrontando la questione con la polizia militare – anche giornalisti furono feriti da proiettili di gomma grandi come limoni, e un fotografo perse un occhio – finché le proteste scemarono, e la routine della corruzione e degli appalti truccati ricominciò come nulla fosse.

Ma il deprimente bla-bla-bla di questi giorni, il botta e risposta di una classe politica che sembra in lotta personale per restare o accedere al potere, le inchieste (come Lava Jato) che evidenziano come nessuno sia estraneo al sistema di corruzione non fanno altro che riattizzare la rabbia di un povo (popolo) che sente trascurati anche i suoi bisogni più elementari.

Certo, Dilma rischia l’impeachment per le sue operazioni contabili, ma che dire del presidente della Camera Eduardo Cunha, destinato a diventare il vicepresidente in caso di impeachment? Secondo le inchieste in corso una vera e propria Mani Pulite brasiliana, Cunha avrebbe ricevuto tangenti per 15 milioni di euro, oltre ad avere avuto quattro conti svizzeri milionari mai dichiarati. E che dire del presidente del Senato, Renan Calheiros, che detiene il record di dieci processi in corso presso la Corte Suprema.

Lava Jato, del resto, coinvolge tutti i ‘pesi massimi’ della politica brasiliana, sia della parte oggi al potere che di quella che vorrebbe prenderne il posto, in tutti gli ambiti: dalle banche alle infrastrutture alle aziende pubbliche al sistema di governo, al settore privato. La telenovela dell’impeachment continuerà per mesi in un contesto di grave corruzione; dato che non si vedono ricambi all’orizzonte nella classe dirigente, non si presagisce nulla di buono per il futuro prossimo del Brasile.