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Il Senegal, l’oro nero e le contraddizioni di un modello di sviluppo

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La crisi del petrolio causata dalla pandemia di Covid-19 potrebbe spazzare via in un sol colpo le speranze del Senegal di diventare il nuovo “Emirato degli idrocarburi” dell’Africa occidentale. Come sta succedendo pure in Mauritania, Mozambico o Tanzania, gli scenari apocalittici dell’epidemia globale – con la peggiore svalutazione del prezzo del barile (più che dimezzato da gennaio, a marzo ha toccato i 20,56 dollari) dovuto al più profondo crollo (- 25%) della domanda di prodotti petroliferi della storia – stanno rapidamente ridimensionando le velleità dell’emergente Senegal che, forte di recenti scoperte, ambisce ad entrare nel club dei produttori africani d’idrocarburi.

 

Il nuovo emirato, in sospeso

“Se la pandemia di Covid-19 continuerà, il Senegal rischia la recessione economica. Su questo non c’è dubbio”. E’ lo stesso Presidente senegalese Macky Sall, a fine giugno, a lanciare l’allarme attraverso un’intervista al quotidiano britannico Financial Times, facendo riferimento agli “effetti devastanti” sul paese-locomotiva dell’Africa occidentale francofona, reduce da cinque anni consecutivi di crescita del pil di almeno il 6,5% e oggi con una previsione, “se tutto va bene”, dell’1%. Nell’incerto contesto evocato da Macky Sall, la rimessa in discussione dei due principali progetti di sfruttamento degli idrocarburi senegalesi – annunciata da alcune compagnie straniere in risposta alla crisi del settore – pesa come un macigno sulle prospettive di crescita del paese.

Dopo innumerevoli ritardi, il tanto agognato primo barile di petrolio Made in Senegal avrebbe dovuto vedere la luce entro il 2021. La pandemia, invece, ha causato un ulteriore slittamento di almeno uno-due anni nei progetti estrattivi di un paese che vanta riserve stimate di 500 milioni di barili di petrolio (ossia una produzione potenziale media di 100-120 mila barili al giorno) e 700 miliardi di metri cubi di gas naturale liquefatto. Negli ultimi mesi le compagnie straniere attive sui pozzi senegalesi hanno infatti deciso importanti tagli negli investimenti, appellandosi alla “causa di forza maggiore” e agitando lo spauracchio della parziale non ottemperanza degli obblighi e delle tempistiche dei contratti stipulati con il governo senegalese.

Il 27 marzo l’inglese Cairn ha imposto un taglio negli investimenti di capitale allo sviluppo della concessione petrolifera del blocco Sangomar per l’anno corrente: sono ora stimati a meno di 330 milioni di dollari, contro i 400 inizialmente previsti. Il 7 aprile il colosso britannico BP, principale operatore del progetto Grand Tortue – Ahmeyim (GTA), uno dei più grandi giacimenti di gas naturale liquefatto di tutta la regione, situato a cavallo fra le acque territoriali di Senegal e Mauritania, ha annunciato lo slittamento di almeno un anno (2023 anziché 2022) nell’istallazione della piattaforma flottante necessaria per il passaggio alla fase produttiva. Il giorno successivo è stata la volta dell’americana Kosmos, partner di BP nel progetto GTA. Un effetto a cascata che ha portato le principali compagnie estrattive – in forte perdita durante il primo semestre 2020: BP valuta i propri benefici potenziali di quest’anno a 1,483 miliardi di dollari, contro i 4,025 del 2019 – a una drastica revisione al ribasso dei loro piani d’investimento in Senegal, dove GTA e Sangomar, i più promettenti giacimenti d’idrocarburi scoperti nel 2014, avevano già subito tre ritardi maggiori.

I piani di sfruttamento petrolifero e i giacimenti al largo del Senegal

 

Manna o maledizione?

Da quando, cinque-sei anni fa, sono stati trovati importanti giacimenti off-shore di petrolio e gas naturale liquefatto al largo delle coste nazionali, la popolazione senegalese, dalla classe dirigente alla gente comune, si pone la medesima domanda: “La presenza d’idrocarburi è una manna o una maledizione?”

La tanto breve quanto movimentata storia dello sfruttamento degli idrocarburi nel paese, infatti, è costellata di fasi e fortune alterne, legate soprattutto alle volatili oscillazioni dei mercati mondiali e ai conseguenti effetti nefasti sugli investimenti internazionali nel comparto estrattivo. L’alto costo nella costruzione delle infrastrutture necessarie allo sfruttamento di gas e petrolio, unito alle difficili condizioni di estrazione – legate alla natura geologica dei siti scoperti e alla loro localizzazione in alto mare – rendono meno appetibili e più incerte le prospettive di guadagno delle multinazionali, che restano caute.

L’annuncio, nell’ottobre 2014, della scoperta di un importante giacimento di petrolio nel blocco Sangomar Profondo (in alto mare, 100 chilometri a sud della capitale Dakar) ha dato il via a una prima ondata d’entusiasmo nel paese. Lo stesso Piano Senegal Emergente, pilastro del programma di sviluppo nazionale del presidente Macky Sall per l’orizzonte 2014-2035, è frutto di tale afflato, oltre ad essere economicamente fondato sulle rosee prospettive suscitate dalla scoperta dell’oro nero.

Secondo le proiezioni pubblicate nel 2016 dalla società Kosmos, scopritrice del giacimento Tortue nel blocco Saint-Louis offshore profondo, questo sito, da solo, avrebbe fruttato al pil del Senegal un guadagno di circa 14 miliardi di dollari in trent’anni. Insieme alle aspettative, durante i primi anni sono cresciuti anche gli interessi e gli investimenti stranieri. Contratti milionari per la fase esplorativa sono cominciati a fioccare e, con loro, anche i problemi. Dal 2016 i big dell’industria petrolifera mondiale – come l’inglese BP (associata a Kosmos da dicembre 2016 per lo sfruttamento di Grand-Tortue), la francese Total (da maggio 2016 al lavoro sul campo Rufisque Offshore Profondo) e la cinese CNOOC (attiva sulla concessione AGP Profondo, a cavallo fra Senegal e Guinea Bissau) – si sono buttati a capofitto in un mercato fino ad allora guardato con sospetto, riacquistando le quote delle piccole e medie società straniere (come Kosmos Energy, Cairn, FAR e Woodside Energy) titolari delle prime concessioni senegalesi.

Le preoccupazioni della società civile – danni ambientali che minacciano la pesca (settore chiave, che in Senegal impiega circa un milione di persone), pochi posti di lavoro creati, scarse formazioni di figure professionali specializzate locali, contratti e concessioni “opache” a multinazionali straniere a discapito dell’industria nazionale (Petrosen) – sono sfociate nelle manifestazioni di Dakar dell’ottobre 2016. La nascita, nel paese, di un movimento trasversale per la trasparenza del settore degli idrocarburi ha portato, dopo l’arresto di alcuni attivisti, all’impegno del governo di riformare il Codice sul petrolio (2019) e sul gas (2020), oltre che alla decisione di aderire all’Iniziativa per la Trasparenza delle Industrie Estrattive in Senegal (ITIE).

Nonostante alcuni segnali di apertura – da annoverare anche la creazione del Comité d’Orientation Stratégique du Pétrole et du Gaz, singolarità senegalese direttamente collegata alla Presidenza, e la pubblicazione online di tutti i contratti e del Registro dei beneficiari diretti -, però, lo scandalo scoppiato nel giugno 2019 attorno a una presunta tangente di 250mila dollari versata dal discusso padrino degli idrocarburi africani, il rumeno-australiano Frank Timis, al cognato del presidente Macky Sall, ha riportato a galla tutte le fragilità e le contraddizioni del settore estrattivo senegalese.

Macky Sall con il presidente francese Emmanuel Macron in posa sul luogo di un futuro molo per il carico di gas naturale liquefatto. Dietro di loro, una protesta nelle acque dell’oceano

 

Lo sgambetto del Covid-19 e la questione della sostenibilità

Se, agli albori dello sfruttamento del sottosuolo, internazionalmente si parlava del Senegal come “il nuovo Eldorado africano degli idrocarburi”, prospettando una crescita negli investimenti stranieri che invece è stentata a decollare, la crisi del petrolio del 2016-2018 è sopraggiunta a raffreddare gli animi, portando le major petrolifere a una prima riduzione delle attività di ricerca e delle spese sui pozzi ancora lontani dalla fase produttiva, come quelli senegalesi. La successiva ripresa del prezzo del barile – tornato a 76,23 dollari nel giugno 2018, a fronte dei 36, 89 dollari nel febbraio 2016 -, però, ha ridato spinta ai progetti estrattivi più remoti e ambiziosi, riportando in auge anche quelli in Senegal. Proiezioni che circolavano prima del Covid-19 annunciavano per l’Africa subsahariana, all’orizzonte 2025, un contributo del 20% alla produzione mondiale di gas naturale (ossia 84 milioni di tonnellate all’anno), di cui in maggioranza proveniente dai nuovi giacimenti mauritano-senegalesi e mozambicani.

In Africa subsahariana, regione che produce appena l’8% del petrolio mondiale, i venti portati dall’epidemia di Sars-Cov-2 fanno presagire un futuro ancora più incerto per il settore strategico dell’energia. Secondo molti esperti, infatti, la pandemia potrebbe accelerare la transizione verso le fonti rinnovabili. Tale diversificazione, già in atto dal 2014 in alcuni giganti petroliferi africani quali Nigeria, Algeria, Angola, Congo e Sudafrica, rischia invece di affossare economie emergenti come quella senegalese, che nel recente passato si è fortemente indebitata (soprattutto con la Cina) proprio sulle prospettive di guadagno degli idrocarburi.

“I nuovi investimenti nel petrolio e nel gas, in particolare i progetti più costosi come quelli africani, sono compromessi” ha recentemente sentenziato James Cust, economista della Banca Mondiale. “I paesi che contavano sui futuri guadagni del settore degli idrocarburi saranno in difficoltà, soprattutto se hanno contratto ingenti debiti prima che queste ricette non si fossero concretizzate”.

In risposta agli scenari ipotizzati dall’analista della Banca Mondiale, l’ingegnere e geologo senegalese Fary Ndao, auspica, oltre al rilancio del consumo interno di prodotti petroliferi – ad esempio attraverso lo sviluppo delle raffinerie di carburante o dotandosi di centrali elettriche a gas – anche una ripresa della transizione energetica verso fonti rinnovabili come l’eolico, l’idroelettrico e il solare.

Il trentenne autore del libro “L’oro nero del Senegal” (2018) e membro dell’Associazione per lo sviluppo dell’energia in Africa, indica negli investimenti nazionali sulle infrastrutture dei trasporti d’idrocarburi – porti, pipeline e centri di stoccaggio – la ricetta per uscire dal baratro della dipendenza dalle multinazionali petrolifere straniere. Una sfida oggi più che mai cruciale per il futuro del Senegal e dell’intero continente.