Il secolo americano, a 70 anni dall’ultima Guerra mondiale
Gli Stati Uniti restano “la nazione indispensabile”. Così ha detto Barack Obama in un importante discorso ai cadetti dell’accademia militare di West Point, un anno fa. Aggiungendo: “ciò è stato vero per il secolo passato, e sarà vero per il nuovo secolo”.
Come mantenere il primato americano nel 21° secolo è il tema di un dibattito fra politici, strateghi e analisti che prosegue quello iniziato con la crisi e la scomparsa dell’Unione Sovietica, e che ha avuto un’ulteriore impennata negli anni post-11 settembre. Si tratta di un dibattito preoccupato, che contrasta con la fiduciosa certezza con cui la nozione della nascita, anzi della raggiunta maturità di un American century (popolarizzata da Henry Luce nel 1941, dieci mesi prima di Pearl Harbor) era data per scontata alla fine della Seconda guerra mondiale. Quando, disse il Presidente Truman, gli Stati Uniti erano “un gigante” ovvero, confermò Churchill, stavano “al sommo del potere mondiale”.
Il futuro appariva brillante, pieno di promesse, 70 anni fa.
L’anno scorso, nel riproporre l’ipoteca americana sul futuro, Obama ha enumerato gli indubbi vantaggi in hard power e soft power di cui gli Stati Uniti continuano a godere: una superiorità militare e una rete di alleanze senza pari; un’economia in ripresa, la più dinamica di tutte, capace di innovazione, sempre più indipendente dal punto di vista energetico; una società attraente per numeri enormi di immigrati; ideali politici attraenti oltre i confini nazionali. Ha elencato poi le sfide: il terrorismo e i conflitti settari nel vasto Medio Oriente; le emergenze umanitarie e quindi politiche e geopolitiche in tante aree del globo; la concorrenza e le aspettative di Paesi come India e Brasile; il ritorno sulla scena della Russia post-sovietica; la crescita economica e l’estensione strategica della Cina – che ha giustificato il recente tentativo americano di Pivot to Asia. Nell’affrontare queste sfide, il Presidente ha ricordato ai cadetti, Washington deve usare la forza con moderazione (non è vero che “ogni problema ha una soluzione militare”) e rafforzare invece le istituzioni collettive internazionali.
Le prospettive delineate dal Obama mostravano un certo ottimismo di tipo, per così dire, comparativo: “Non ci avviciniamo neanche ai pericoli che abbiamo affrontato durante la Guerra fredda”. Suggerivano, tuttavia, che i pericoli del presente sono di natura diversa, non meno allarmanti se non sono governati con la prudenza di tutti. Essi non derivano dalla logica del confronto ideologico bipolare come, appunto, all’epoca della Guerra fredda. Quando già, in effetti, il secolo americano era rimasto incompiuto, aveva incontrato i suoi limiti geografici e politici nell’antagonismo globale dell’Unione Sovietica. Un antagonismo che tuttavia, paradossalmente, era stato anche una condizione del successo del potere americano all’interno di quei limiti. Era stato di fronte alla minaccia del comunismo internazionale che gli Stati Uniti erano riusciti a compattare intorno a sé i Paesi alleati per convinzione e amici per convenienza, a conquistare il ruolo monopolistico di loro protettori e fornitori di sicurezza, spesso con il loro consenso e magari il loro esplicito invito.
Ora quella minaccia, quel collante e quella logica sono svaniti. I cambiamenti e i pericoli del presente sono di altro tipo. Sono legati, da una parte, alle tensioni tipiche di una rinnovata great power politics dal sapore antico, in un’epoca di rivalità multipolari fra potenze in declino e potenze in ascesa. E dall’altra all’esplodere, negli interstizi di queste tensioni, di conflitti di origine locale e regionale che sono sempre esistiti, ma che ora usano linguaggi inediti. Il risveglio politico-religioso islamico, che forse per primo ha sconvolto il paradigma della Guerra fredda con la rivoluzione iraniana del 1979, esprime rivendicazioni che sono spesso incomprensibili agli attori statuali tradizionali; si presenta loro come un avversario sfuggente, genera guerre asimmetriche e incontrollabili movimenti di popolazioni. In questo contesto di riassestamento dell’ordine mondiale, che appare come un grande disordine, le organizzazioni internazionali sono in difficoltà. E l’intero Occidente atlantico è meno centrale e ha perso lucidità politica strategica. Gli Stati Uniti, che ne sono il cuore, fanno i conti con il fatto di essere la potenza in declino relativo rispetto ad altre in ambiziosa ascesa.
Da più parti si evoca, sull’onda del centenario del 1914 e con toni anche troppo apocalittici, lo scenario che portò alla Grande guerra. All’inizio del Novecento la nascita di nuove ambizioni egemoniche (compresa quella degli stessi Stati Uniti), aveva sconvolto i vecchi equilibri di potenza ottocenteschi e scatenato due catastrofiche guerre mondiali. Proprio da quegli sconvolgimenti era nato il secolo americano, sulle ceneri del precedente “secolo europeo”. Ora gli equilibri mondiali sono di nuovo in movimento, e ciò comporta i soliti rischi di competizione distruttiva, magari innescati da incidenti in aree in apparenza eccentriche e marginali. Si parla dell’emergere di un Asian-American century o Pacific century, rassicurante per gli Stati Uniti perché vi si auto-includono. Ma si parla anche di un Asian century che li esclude, e di un Chinese century che li sfida. Leader nazionalisti pretendono di aspirare a un Russian century, persino a un India’s century. L’ipoteca sul futuro, nelle intenzioni, non è solo americana.
Se il ventunesimo secolo sarà un secondo American century, e a quali condizioni, resta una questione aperta – a 70 anni dalla fine dell’immenso conflitto che quel secolo ha segnato e sancito.