international analysis and commentary

Il ritorno dei confini in Europa

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A quasi trent’anni dalla caduta del muro simbolo della Guerra fredda “discendono” nuove cortine sull’Europa, di cristallo più che di ferro per utilizzare una definizione dell’Economist. Barriere che rallentano la piena realizzazione del disegno europeo di unità e coesione. Il principio inclusivo che ha ispirato il percorso dell’integrazione europea ha perso la sua forza propulsiva e attrattiva, anche perché l’ingresso nelle istituzioni dell’UE non rende immuni da nuove crisi e divisioni. Al contrario, anche facendo parte dell’Unione, i confini possono irrigidirsi o rinascere.

Sono almeno tre i grattacapi con cui deve fare i conti Bruxelles all’interno della sua area comunitaria, ad alto tasso di integrazione e sovranazionalità grazie alla libera circolazione di merci, capitali, persone e servizi. Una crisi che perdura da anni, una crisi che la democrazia referendaria ha creato, e una crisi che nemmeno il diritto internazionale riesce a risolvere (prova tangibile del fatto che l’adesione all’Unione Europea non è la panacea di tutti i mali).

Dalle complicazioni di confine che la Brexit ha portato con sé, passando per la linea di demarcazione che percorre Cipro, fino alla disputa marittima fra Slovenia e Croazia il quadro presenta scenari vecchi e nuovi ancora irrisolti. Senza considerare quel che accade sul continente europeo al di fuori dell’Unione. Mentre il dibattito relativo ai migranti si divide fra accoglienza e respingimento, fra soluzioni temporanee e (poche) visioni di lungo termine, storie di muri e confini tornano a incombere sul futuro comunitario come un (altro) monito di fratture profonde. Una pentola a pressione che potrebbe esplodere, se non viene tenuta sotto controllo.

Il nodo irlandese

Un confine di quasi 500 km, che prima del 1998 era costituito da barriere, torri di guardia, presidi militari, controlli su entrate e uscite, rischia di tornare in vita ad appena vent’anni dall’abbattimento. Fu appunto nell’aprile del 1998 che il Good Friday Agreement regolò in modo concordato i rapporti tra Londra e Irlanda del Nord, accordo poi ratificato con una simultanea modifica costituzionale dal Parlamento della Repubblica d’Irlanda: il confine tra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda da allora è cambiato radicalmente.

La questione si inserisce nel contesto delle trattative sul divorzio fra Regno Unito e UE. I negoziati fanno fatica a decollare perché nessuna delle parti coinvolte accetta una soluzione di compromesso. L’unica certezza è che quella linea divisoria, ormai diventata quasi invisibile grazie all’unione doganale e al mercato comune, non la vuole nessuno fra gli irlandesi. Il Primo Ministro britannico, Theresa May, si concentra sulla questione politica Londra-Bruxelles e trascura la dimensione locale Londra-Belfast. Secondo un recente sondaggio della BBC, meno della metà dei nordirlandesi si sente britannico, e la maggioranza preferisce definirsi irlandese o europeo. Fra questi, più di un quarto sostiene che la decisione della Gran Bretagna di uscire dall’UE ha reso più probabile un loro voto a favore di un’Irlanda unita.

Del resto, l’esperienza diretta è stata istruttiva: dopo decenni di disordini (scoppiati nel 1968 nell’Ulster, in Irlanda del Nord, tra la minoranza cattolica unionista e la maggioranza protestante nazionalista, desiderosa di rimanere nel Regno Unito), dal 1998 è come se quel confine non ci fosse anche in virtù della comune casa europea.

The Northern Irish border in the 70s

 

Il referendum che ha portato alla Brexit ha sparigliato le carte. Lo scorso marzo si è giunti a un accordo parziale, che prevede la permanenza del Regno Unito nell’UE fino al 29 marzo 2019 e un periodo di transizione fino al 31 dicembre 2020, dopo di che ci sarà l’uscita effettiva e completa. Nel testo legale concordato fra Londra e Bruxelles per il discorso confinario si parla di “backstop plan”, un piano di sicurezza di un anno per la gestione del confine. Il piano prevede che l’Irlanda del Nord rimarrà allineata alle regole dell’UE, ma in virtù dell’integrità costituzionale del Regno Unito questo varrà anche per tutto il territorio. In sostanza, l’Irlanda del Nord continuerà a far parte del mercato unico e dell’unione doganale (secondo una soluzione transitoria teoricamente limitata a un solo anno, ma di applicazione estendibile) se non verranno trovate nuove soluzioni, con la possibilità che il temporaneo si trasformi in definitivo, come accaduto per l’accordo ancora in vigore fra Norvegia e UE siglato nel 1994.

Se dovesse prevalere la proposta “hard border” della May, tra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda tornerebbero le infrastrutture preesistenti al ’98. Un ritorno al passato anziché uno sguardo verso il futuro.

Il confine tra Slovenia e Croazia

E’ ricorso  il 29 giugno un anno dalla sentenza della Corte permanente di arbitrato (CPA) de L’Aia che, in teoria, avrebbe dovuto porre fine all’annosa diatriba dei confini terrestre e marittimo fra Slovenia e Croazia. Un dibattito che si protrae dalle dichiarazioni di indipendenza dei due paesi, quando la Commissione arbitrale della conferenza sulla Jugoslavia, presieduta dal giurista francese Robert Badinter, tra il 1991 e il 1993 formulò 15 consigli sui più grandi temi giuridici che si erano creati con la dissoluzione del Paese. La Commissione Badinter decise che i confini tra gli stati indipendenti dovevano essere quelli delle vecchie repubbliche jugoslave, e i confini tra gli stati indipendenti si sarebbero potuti cambiare solo con accordi conclusi volontariamente, mentre i vecchi confini sarebbero stati tutelati dal diritto internazionale.

A nulla sono valsi i vari accordi sul traffico transfrontaliero per facilitare il transito per gli abitanti delle zone di frontiera. In particolare, la situazione del confine marittimo è diventata questione di diritto internazionale, oltre che strategica perché c’è in ballo per la Slovenia la possibilità di accesso diretto alle acque internazionali. Prima della dissoluzione della Jugoslavia non esistevano confini marittimi fra le repubbliche federali, quindi non ve ne erano nemmeno fra Slovenia e Croazia. Nel 1993 il parlamento di Lubiana approvò un memorandum che prescriveva l’accesso al mare aperto tramite il golfo di Pirano, interamente sloveno, mentre Zagabria sosteneva che il confine via mare passasse attraverso la metà del golfo.

Dopo numerosi tentativi andati a vuoto di trovare un accordo bilaterale, anche la decisione della CPA sembra destinata a continuare sulla strada dell’insuccesso. La sentenza stabilisce che il confine terrestre tra Slovenia e Croazia segue il corso del fiume Dragogna, così come sancito dai confini cristallizzati nel giugno del 1991 al momento dell’indipendenza slovena, per finire nel mezzo del canale di Sant’Odorico. Se questo confine, da un lato, segue un percorso naturale, nelle acque il problema diventa più complesso. I giudici della CPA, infatti, hanno imposto una linea che dalla foce della Dragogna raggiunge il golfo di Pirano, per tre quarti assegnato alla Slovenia, cui concede un corridoio largo 2,5 miglia nautiche. Questo permetterebbe alle imbarcazioni slovene di raggiungere le acque internazionali senza passare per quelle croate.

La Croazia ha detto di non aver intenzione di rispettare la sentenza. Già nell’estate del 2015 Zagabria aveva abbandonato la procedura di arbitrato dopo una fuga di notizie che aveva rivelato contatti tra un giudice membro della corte e un rappresentante del governo sloveno. La Slovenia, da parte sua, fa appello al rispetto del diritto internazionale e alla Commissione Europea per vedere applicata la sentenza della Cpa, che ha un’importanza strategica per il porto di Capodistria.

La frontiera tra le due Cipro

Il capitolo che riguarda Cipro è il più paradossale dei tre qui considerati. L’isola mediterranea, infatti, rappresenta l’unica zona cuscinetto sorvegliata dalla Nazioni Unite in territorio UE: l’organizzazione internazionale per eccellenza registra la sua missione di più lunga durata proprio sul territorio europeo, che consideriamo sinonimo di pace, stabilità e prosperità.

I 180 km di territorio smilitarizzato che servono a tenere a distanza le divise della repubblica greco-cipriota, riconosciuta internazionalmente e Paese-membro della UE, da quelle della sedicente entità turco-cipriota al nord sono ormai un mondo a parte. La situazione di tensione, e a tratti di conflitto armato, si è articolata in varie fasi a partire dal 1963 e arriva, irrisolta, fino ai giorni nostri con una partizione de facto che porta le truppe militari turche pronte al confronto con quelle di uno stato europeo e divise solo da una missione militare dei caschi blu onusiani.

Sulla carta la missione ONU deve garantire il rispetto del cessate il fuoco in attesa che la politica riesca a risolvere la questione. Da un lato è vero che sull’isola non si spara più un colpo dal 1974, anno dell’invasione turca che depose l’arcivescovo greco-ortodosso Makarios, ma dall’altro proprio la massiccia presenza dell’esercito turco  e le numerose questioni irrisolte renderebbero rischioso un passo indietro della missione internazionale.

L’anno di grazia sul continente europeo è il 2018, ma le lancette sembrano essere rimaste bloccate agli anni ‘60. E le tensioni non sembrano destinate a trovare una soluzione nel breve termine.