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Il ritorno al passato di Putin

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A venticinque anni dall’arrivo di Vladimir Putin al Cremlino, la politica estera russa, secondo come la si voglia vedere, è radicalmente cambiata, o è semplicemente tornata a mostrare la sua “vera” natura dell’imperialismo in stile sovietico. Nel 2000, Vladimir Putin affermava in un’intervista alla BBC: “è difficile per me visualizzare la NATO come un nemico… La Russia fa parte della cultura europea. E non riesco a immaginare il mio paese isolato dall’Europa”. Nel 2014 e 2022 rispettivamente, la Russia annetteva la Crimea e invadeva su larga scala l’Ucraina, pronta a rompere – quantomeno fino all’arrivo di Trump – con l’Occidente per gli anni, forse i decenni, a venire e moltiplicando le iniziative mirate, insieme ad altri Paesi, a istituzionalizzare gradualmente un fronte politico ed economico antioccidentale su scala globale.

Skyline dal Cremlino

 

Back to the USSR

Per seguire questa parabola, è possibile distinguere almeno quattro macrofasi nell’evoluzione della politica estera putiniana nei confronti degli Stati Uniti, dell’Europa e della NATO e conseguentemente del mondo. 1. Una breve, prima fase dialogante tra il 2000 e il 2004, in particolare in corrispondenza dell’attacco alle Torri Gemelle nel 2001, quando la Russia offrì sostegno agli Stati Uniti nel nome di un fronte internazionale anti-terrorismo. 2. Un costante incremento delle relazioni economico-commerciali con l’Europa tra il 2005 e il 2013 (soprattutto, ma non solo, in campo energetico) in parallelo però all’accrescersi di tensioni politiche a seguito delle rivoluzioni “colorate” in Georgia nel 2003 e Ucraina nel 2004 – lette dal Cremlino come iniziative guidate da Washington – e di iniziative multilaterali a guida statunitense come il riconoscimento del Kosovo. 3. Una rapida degradazione delle relazioni prima con le Primavere Arabe nel 2011 e poi con Maidan, l’annessione della Crimea e il controllo russo de facto di parte del Donbass nel 2014. 4. Infine, la fase in cui siamo oggi a partire dalla decisione senza ritorno dell’invasione dell’Ucraina nel 2022, in cui è il motore, il presupposto stesso della politica estera russa ad essere cambiato nell’essenza.

 

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Fin dagli inizi, con strumenti diversi, Putin ha ricercato e perseguito il riconoscimento a livello internazionale della Russia di un ritrovato status di “grande potenza” perso nel 1989, e lo ha di fatto ottenuto, affermandosi agli occhi di molti dentro e fuori dal paese come leader certo autoritario ma anche “forte”, razionale, grazie a operazioni militari dall’impiego limitato di forze che nell’immediato hanno ottenuto successi (o che la propaganda russa ha potuto vendere come tali). Da tre anni a questa parte, invece, l’impegno in Ucraina – che per la leadership russa è una questione di politica interna e non estera – è l’unica vera e costosissima priorità, per cui si è pronti, o costretti, a rinunciare a molto di ciò che era stato costruito precedentemente, in termini reputazionali e di influenza.

 

L’esempio della Georgia

Quest’evoluzione su un ventennio, e gli sviluppi più recenti, sono esemplificati dai casi della Georgia nello spazio ex sovietico e della Siria in Medio Oriente. Le tensioni tra Putin e i paesi occidentali emersero in effetti per la prima volta con forza con la vittoria elettorale in Georgia nel 2004 del primo governo apertamente filo-occidentale e anti-russo nello spazio ex sovietico. Quell’evento, che si ripete qualche mese dopo in Ucraina, fece capire al Cremlino che la Russia aveva perso, o stava perdendo, l’influenza politica ed economica che aveva continuato a esercitare nella regione per inerzia, e data per scontata fino ad allora.

La reazione fu internamente l’elaborazione teorica di un’ideologia repressiva per scongiurare un “contagio democratico” ed esternamente l’esplicitazione, nel famoso discorso di Putin alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco nel 2007, che la Russia non accettava l’ordine unilaterale a guida americana, che considerava non democratico e non giusto, ne spravedlivyj, e che mirava a guidare la costruzione di un sistema alternativo e multipolare. Nel giro di pochi mesi, gli eventi in Georgia, in particolare il tentativo di Mikheil Saakashvili – in linea con la sua agenda nazionalista e dopo provocazioni russe provenienti dalla regione limitrofa dell’Ossezia del Nord – di riprendere la regione separatista dell’Ossezia del Sud, diventarono il casus belli per rispondere in maniera dura e pianificata ai tentativi di Tbilisi di avvicinarsi all’Occidente.

La guerra di Georgia (8-12 agosto 2008), per i russi, fu caratterizzata da grandi difficoltà organizzative e di coordinamento, controbilanciate, però, dalla forza schiacciante di Mosca rispetto all’avversario, che le permise di concludere la guerra in soli cinque giorni. Da questo punto di vista, l’invasione della Georgia è stato uno spartiacque nell’era post-Guerra fredda perché per la prima volta la Russia di Putin attaccava militarmente un ex Stato sovietico. La decisione ha anticipato l’approccio che i Russi avrebbero adottato anche all’indomani della decisione di abbandonare il dialogo diplomatico con l’Occidente a seguito delle primavere arabe del 2011.

 

L’intervento in Siria

In effetti, pochi anni dopo la Georgia, le relazioni tra Russia e Occidente si degradarono ulteriormente a seguito delle rivolte in Medio Oriente e Nord Africa. Per Putin le relazioni con i paesi in via di sviluppo e il rafforzamento dei partenariati già esistenti al tempo dell’Unione Sovietica sono due elementi centrali per la creazione del mondo multipolare a cui Mosca aspira. L’elemento degno di nota è che le mosse di Mosca, percepite in Occidente come aggressive, sono per i russi una reazione all’ondata di destabilizzazione causata dalle primavere arabe del 2011, che avevano messo in crisi lo status quo di regimi decennali (che per la Russia sono sempre una soluzione preferibile) e, in tale contesto, ai bombardamenti di alcuni Paesi NATO in Libia contro il regime di Gheddafi, nonostante la contrarietà del Cremlino.

L’intervento in Siria, ad esempio, è stato visto dai russi come necessario al fine di arrestare l’espansione del fondamentalismo islamico e di evitare che l’intera regione diventasse una gigantesca polveriera che gli americani avrebbero potuto sfruttare in qualsiasi momento per destabilizzare la stessa Mosca. Lo stesso Ministro degli esteri russo Sergej Lavrov, chiarendo da subito la posizione del Cremlino nei confronti del teatro siriano, aveva dichiarato già nel 2011: “Alcuni dei capi delle forze della coalizione, e in seguito il Segretario Generale della Nato, hanno definito l’operazione in Libia un modello. Per quanto riguarda la Russia non permetteremo che nulla di simile si ripeta in futuro”.

Le motivazioni strategiche dietro l’intervento in Siria (2015-2024) erano chiare: l’ottenimento di una base navale nel Mediteranno, Tartus; la stabilizzazione di un Paese alleato di Mosca; l’arresto dell’avanzata dei regimi islamisti. Ma più in generale, c’era anche la più astratta ricerca di un teatro dove dimostrare la forza militare ritrovata all’indomani delle riforme Serdjukov del 2008, finalizzate alla professionalizzazione e modernizzazione delle forze armate all’indomani dei problemi emersi nella guerra in Georgia, e dove recuperare parte del prestigio perso a causa dei mediocri risultati ottenuti dalla Federazione Russa nelle sue guerre dal 1992 in poi.

È interessante, però, come i russi non si siano approcciati alla Siria con l’intenzione di intervenire militarmente e come numerose volte, prima che il governo di Assad si trovasse sull’orlo del baratro nel 2015, la Russia abbia tentato di agire sia nelle sedi ONU, dove con il supporto della Cina aveva messo in stallo il Consiglio di Sicurezza, sia come mediatore organizzando incontri tra le parti belligeranti, gli ultimi a gennaio e aprile del 2015, nella speranza di porre fine alla questione e salvare il suo alleato. È stato solo quando il destino di Assad è sembrato inevitabile che la Russia ha deciso di intervenire.

 

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L’intervento, di per sé, fu un grande successo che permise a Putin, forte dei risultati ottenuti, di riacquisire una postura aggressiva nell’arena internazionale e proiettare, anche a livello interno, un’immagine di forza considerata indispensabile nelle relazioni con gli Stati Uniti e l’Occidente. Dal punto di vista militare, i russi in Siria dimostrarono di aver colmato quasi tutte le lacune che erano diventate evidenti negli anni precedenti. La capacità di comando e controllo era migliorata enormemente e l’aviazione, miope e goffa nel 2008 in Georgia, riusciva a coordinarsi efficacemente con le forze di terra. La mancanza di capacità unmanned e di guerra elettronica era un ricordo del passato; droni, anche in coordinamento con i mezzi corazzati, e jammers venivano impiegati per avere costante visione di un nemico che, a sua volta, veniva accecato. Gli stessi soldati mostrarono un grado di professionalità e competenza incomparabile rispetto alle esperienze precedenti e, sapientemente, l’Alto comando sfruttò la Siria per far guadagnare ai suoi ufficiali esperienza sul campo.

Ovviamente le capacità degli avversari erano infinitesimali rispetto a quelle delle forze russe. Questo divario, però, esisteva anche in Iraq e in Afghanistan fra gli Stati Uniti e i loro avversari, per cui il successo militare in Siria, affiancato alla conquista fulminea della Crimea nel 2014, permise a Putin di ottenere il prestigio per sedersi alla tavola delle potenze militari. In tal modo, la Russia cominciò ad essere percepita come un attore internazionale pericoloso e competente, cosa che ha funzionato sia da catalizzatore che da cemento per la diplomazia aggressiva del Cremlino nel periodo 2011-2022.

 

Le conseguenze dell’invasione in Ucraina

La situazione attuale in cui i russi stanno perdendo la loro presenza in Siria a seguito della caduta di Assad – il destino della base navale di Tartus è incerto e in balìa del nuovo governo siriano – è, invece, un prodotto dell’invasione dell’Ucraina del 2022. Oggi la politica estera del periodo susseguente alle primavere arabe si è dovuta scontrare con l’enorme sforzo della guerra in Ucraina che ha esacerbato i conflitti, rendendo ancora più inefficaci le alternative diplomatiche, riducendo, al contempo, le capacità e i mezzi a disposizione del Cremlino per perseguire e difendere i suoi obiettivi attraverso la forza militare.

 

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Ad oggi si può affermare che l’approccio con la Siria e con gli altri paesi del cosiddetto Sud Globale – che l’élite russa preferisce definire “Maggioranza Mondiale” – è diventato meno strategico e più funzionalistico”: finalizzato cioè a ottenere benefici materiali e favorevoli nel breve termine e a sfuggire all’isolamento nell’arena internazionale.

La ricerca di vittorie strategiche implicherebbe infatti un’inaccettabile riduzione delle risorse dedicate all’Ucraina e più in generale a teatri dello spazio ex sovietico, in cui bisogna aspettarsi che Mosca, alla fine o nella fase di interruzione temporanea della guerra contro Kiev, punterà a rafforzare ulteriormente la sua presenza.