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Il rebus cinese per Biden

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Cina, poi ancora Cina e infine Cina. Bastano pochi colloqui a Washington, con esponenti di punta dell’amministrazione, per confermare ciò che già si sapeva. La competizione con Pechino è la preoccupazione centrale della Casa Bianca.

Dettaglio da un planisfero cinese

 

Per i critici, la politica estera di Joe Biden è dispersa su troppe priorità, con scarsi risultati. Sono ancora sospesi gli aiuti all’Ucraina, come effetto delle divisioni al Congresso. La convinzione prevalente a Washington è che verranno sbloccati almeno parte dei 60 miliardi di dollari promessi dall’amministrazione Biden. Il punto è che il fattore tempo non può essere trascurato, l’Ucraina è in crescente difficoltà sul terreno e rischia di perdere posizioni strategiche se non riceverà rapidamente nuovi sistemi di difesa aerea.

In Medio Oriente, la pressione sul governo Netanyahu è sempre più forte ma con effetti non decisivi: la tesi dei nostri interlocutori è che la Casa Bianca non possa utilizzare la leva degli aiuti militari senza mettere in discussione uno storico rapporto di alleanza. Premere senza premere fino in fondo è il difficile equilibrismo di Joe Biden, tanto più in un anno elettorale. Israele sta ritirando le truppe da Khan Yunis, dal Sud della Striscia di Gaza. Non è la fine della guerra: è ancora aperto il nodo degli ostaggi e restano in agenda operazioni mirate a Rafah contro ciò che resta delle forze di Hamas.

 

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Ma che si parli di Ucraina e di Russia – che per l’America è una potenza regionale in declino, ormai retta da un’economia di guerra – o che si guardi al futuro riassetto del Medio Oriente, dove Pechino appare oggi defilata ma che ha suo tempo mediato il dialogo fra Arabia Saudita ed Iran, è sempre e solo sulla Cina che si finisce per atterrare.

Per cui la domanda diventa: l’America sta gestendo in modo coerente la competizione strategica con Pechino?

Le ultime missioni diplomatiche danno indicazioni interessanti. A Bruxelles, il Segretario di Stato Antony Blinken ha avvertito più volte gli alleati europei della NATO che Pechino sta accentuando il suo sostegno alla tenuta del sistema militare/industriale della Russia. Preoccupazioni specifiche riguardano il propellente per i missili. E’ anche un avvertimento agli europei, sulla valenza geopolitica dei rapporti economici con Pechino. Ma insistendo sul sostegno della Cina alla Russia, Blinken indica soprattutto che per il futuro dell’Ucraina la Cina è parte del problema; e quindi, almeno in teoria, della soluzione. Nella recente telefonata fra Joe Biden e Xi Jinping si è parlato anche di questo.

In visita in Cina, il Segretario al Tesoro americano Janet Yellen ha messo sul tavolo le preoccupazioni degli Stati Uniti (e dell’UE) per la “sovra-capacità” industriale cinese nel settore delle energie rinnovabili. La strategia economica immaginata da Xi Jinping per rispondere alle difficoltà di crescita della Cina piace poco all’America, che non esclude nuove forme di protezionismo. Tanto più in una fase, ha aggiunto Yellen, in cui la Cina sta aiutando la Russa a reggere l’impatto delle sanzioni occidentali. Sicurezza ed economia si contagiano.

Quindi: il messaggio americano è che Pechino non può al tempo stesso sostenere Mosca in Ucraina con forniture di beni a doppio uso (civile e militare) e sperare di ottenere, nei rapporti con Washington, condizioni più favorevoli per le proprie esportazioni, colpite in questi anni da vari dazi e sanzioni nei settori tecnologici come i microprocessori. E qui le cose, per rispondere alla domanda iniziale, diventano complicate. Per le imprese occidentali la Cina resta comunque un mercato privilegiato. La tanto annunciata “sconnessione” fra le economie resterà limitata. Sia l’Europa che l’America temono il dumping cinese nelle tecnologie verdi; ma l’Europa in particolare ne è dipendente.

Questo avviene in una fase non facile per l’economia della Cina, che Xi Jinping intende affrontare stimolando la manifattura ad alto valore aggiunto con forti investimenti statali e tecnologie proprie. L’idea è di rendere la Cina più autonoma, in una fase di frammentazione della globalizzazione. Ma questa è l’idea: la realtà è che il gigante asiatico dovrà continuare a esportare nei mercati occidentali, anche perché lo stimolo ai consumi interni non è riuscito. Puntare sul cosiddetto Global South non è un’alternativa credibile.

 

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In sintesi, la Cina ha comunque bisogno di un aggancio alle economie occidentali per continuare a crescere. L’America tenderà in ogni caso, in un’epoca di rilancio della politica industriale, ad aumentare il proprio livello di protezione: è l’unico terreno di accordo bipartisan. Entrambi gli attori lo sanno. Anche per questo le pressioni incrociate sul fattore Russia avranno effetti contenuti, in ciò che appare – almeno in qualche misura – come un costoso gioco delle parti. E’ improbabile che Xi tolga il suo appoggio a Putin, potrà al massimo limitarlo: la Russia è diventata nei fatti un junior partner della Cina, anche se le agende rispettive non coincidono del tutto.

D’altra parte gli Stati Uniti, indipendentemente dai risultati delle prossime elezioni americane, non torneranno indietro sul contenimento tecnologico della Cina: è il terreno essenziale su cui si combatte la competizione del secolo. Sperando di riuscire a evitare un futuro conflitto su Taiwan, con lo scivolamento dai conflitti economici a una guerra vera e propria.

 

 


*Una versione di questo articolo è stata pubblicata su Repubblica del 7/04/2024