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Il problema è il debito? Sic et non

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Secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale il debito globale (debito pubblico e debito privato) ha raggiunto la cifra di 164 trilioni di dollari (dati 2016), pari al 225% del Pil mondiale. La componente più ampia è costituita dai debiti pubblici, soprattutto dei paesi avanzati, che come è noto sono aumentati a seguito della Grande recessione, in alcuni casi anche in presenza (e per effetto) delle politiche di austerità.

Occorre preoccuparsi? Sì, perché, oltre al servizio del debito, che aumenta quando aumenta lo stock, un alto debito riduce lo spazio fiscale per fronteggiare gli effetti di una crisi futura. È un argomento fondato (“occorre riparare il tetto quando c’è il sole”, sostiene il Fondo Monetario), specie se si tiene conto che l’attuale ciclo espansivo americano, così come quello tedesco, è tra i più lunghi che si ricordi. Semplificando, più aumenta il debito più si è esposti ai venti della speculazione e più aumenta il rischio, percepito o reale, di un default, una prospettiva fino a pochi anni fa appannaggio dei paesi più poveri e che la recente vicenda greca ha riportato nel cuore dell’Europa.

Realisticamente, si potrebbe dire che non vi è nulla di cui preoccuparsi, perché storicamente i debiti, per intero, non si rimborsano mai. Si svalutano, lasciando correre l’inflazione (se si ha il controllo della propria moneta) o si ristrutturano in vari modi. La prima modalità – quella di lasciar correre l’inflazione – è quella adottata dall’Italia nel secondo dopoguerra, prima della politica deflazionistica nota come “linea Einaudi” del 1947, quando l’allora ministro delle Finanze puntò sul ritiro del circolante e sull’aumento del costo del denaro per fermare l’aumento dei prezzi. La seconda modalità – quella della ristrutturazione – è quella della Repubblica Federale Tedesca degli accordi di Londra del 1953 (per inciso, la Germania ha pagato le ultime rate con Angela Merkel nel 2010 e, per quanto quei debiti si fossero ampiamente svalutati nel tempo, la vicenda può spiegare in parte, anche se solo in parte,l’atteggiamento tedesco in materia). Ma la verità è che un default, anche solo parziale e magari “guidato” da quel Fondo Monetario Europeo (di cui si discute in questi giorni come evoluzione dell’Esm – European Stability Mechanism – in una istituzione autonoma ed indipendente di controllo, verifica e sostegno finanziario nei confronti degli Stati europei in difficoltà), può avere conseguenze pesanti in termini di reputazione e di nuovo accesso al mercato dei capitali, come mostra l’esperienza storica.

E se è vero, come gli storici hanno ribadito negli ultimi anni, che i nessi tra crisi bancarie e insolvenza sovrana da una parte e tra crisi dei debiti pubblici e fasi di contrazione dell’economia dall’altra sono profondi, allora i motivi di preoccupazione per il presente non mancano. Perché stiamo entrando in una fase nuova, caratterizzata da scelte protezionistiche di cui è difficile prevedere le conseguenze e da tassi di interesse più alti, con la fine, a breve anche nell’area euro, delle politiche di accomodamento monetario. Le stime di crescita vengono non a caso riviste al ribasso dai governi e dalle istituzioni internazionali.

E dunque il problema è il debito pubblico? Solo in parte e sotto alcune condizioni.

Primo: il debito non è una colpa. Colpevole può essere l’uso che se ne fa. L’idea che il debito sia intrinsecamente un male è il frutto di una visione ristretta dell’economia, incline a paragonare la gestione del “buon padre di famiglia” a quella di uno Stato moderno di entità che hanno taglia e scopi sopranazionali, con capacità, obiettivi, strumenti e durata di vita diversi da quelle del “buon padre”. La stessa ricostruzione della crisi dei debiti sovrani come morality tale è ampiamente screditata dagli storici: «for every reckless borrower there is a reckless lender», ha scritto Barry Eichengreen.

Secondo: per quanto contagi e linkages siano importanti e un buon numero di casi di insolvenza si siano storicamente verificati “a grappoli”, parlare di debito globale è utile, ma fino a un certo punto. Meglio concentrarsi su singoli paesi, specie se questi sono fonte di squilibri globali. Particolare attenzione andrà portata all’impatto della politica di Donald Trump sui twin deficit americani (bilancia estera e bilancio pubblico) e sull’evoluzione del debito cinese, che è passato in pochi anni dal 150% al 250% del Pil.

Terzo, il debito, come il deficit pubblico, non va assolutizzato. Se continuiamo a preoccuparci soltanto del debito pubblico e del deficit pubblico (la stabilità), e non anche di investimenti, occupazione, reddito (lo sviluppo), alla fine ci sarà davvero solo il debito di cui preoccuparsi, perché il rapporto debito-Pil non potrà che peggiorare.

Veniamo all’Italia e all’area dell’euro, caso peculiare anche in sede di indagine storica, perché il debito è denominato di fatto in una valuta come l’euro sotto il controllo di una Banca centrale che non è un organismo nazionale, e l’azione di finanza pubblica è sottoposta a vincoli rigidi. È evidente che la strada della riduzione del debito attraverso gli avanzi primari è troppo lunga e non è socialmente sostenibile. Serve altro. Come è noto, sono state avanzate varie ipotesi e proposti vari piani per una mutualizzazione dei debiti sovrani o di una loro parte nell’area dell’euro, tra cui quello che prevede l’istituzione di un fondo di assicurazione capace di rilanciare gli investimenti produttivi attraverso l’emissione di obbligazioni. Perché è di questo che vi è anzitutto bisogno – di più investimenti – anche se i paesi europei, specie quelli con un twin surplus (di bilancia estera e di bilancio pubblico), fanno finta di non saperlo.

Intanto, la Banca Centrale Europea ha svolto una preziosissima funzione di supplenza, incamerando, attraverso il Quantitative Easing, quote consistenti di debiti pubblici nazionali, non potendo tuttavia svolgere appieno la funzione di lender of last resort.

È chiaro che quella europea è, in questo come in altri ambiti, la sede più appropriata per una soluzione costruttiva. E tuttavia, mentre alcuni paesi insistono nel negare recisamente la possibilità che possa mai esservi una qualche forma di mutualizzazione del rischio sovrano (fino al paradosso logico secondo cui: “prima azzeriamo i rischi e solo poi li condividiamo”), l’alternativa concreta rischia di continuare a essere il break-up dell’euro, o per volontà dei paesi più forti, che potrebbero ritenere di non aver più nulla da guadagnare, o di quelli più deboli, che potrebbero ritenere di non aver più nulla da perdere. Occorrerebbero scelte coraggiose, perché la posta in gioco non è solo l’euro, ma la tenuta delle democrazie. Gli ancora troppo elevati tassi di disoccupazione, non scalfibili dalle politiche di chi non vuole cambiare nulla, sono pericolosi quanto i disordini monetari di chi vuole cambiare tutto. L’Europa lo sa. Eppur non si muove.