Il “Pivot to Asia” visto dall’Asia e il caso Filippine
La “separazione dagli USA” annunciata con clamore dal presidente filippino Rodrigo Duterte, pur avendo colto alla sprovvista la Casa Bianca, sottintende una scelta meno sorprendente di quanto la consuetudine agli eccessi verbalidel personaggio induca a pensare. Il trend in cui si inquadra – la ricerca di un bilanciamento tra Pechino e Washington – in qualche modo riguarda infatti tutta l’area del Sud-est asiatico (ASEAN). Influisce inoltre sulla crisi delle acque e degli isolotti contesi nel Mar Cinese meridionale, apparendo come un contrappeso al pronunciamentoanti-cinese della Corte internazionale di arbitrato dell’Aja, che risale al luglio scorso.
L’iniziativa di Duterte, in più, finisce per sottolineare il ruolo del Giappone come principale e sempre più indispensabile alleato degli USA. Tokyo infatti, come ha dimostrato la visita ivi compiuta da Duterte tra il 25 e il 27 ottobre, significativamente subito dopo la tappa cinese dove fu annunciata la “separazione”, è chiamata a tappare le falle di una strategia, quella del Pivot to Asia alla quale Barack Obama e Hillary Clinton si sono votati, ma che incontra sempre nuovi ostacoli nella sua realizzazione.
Il messaggio più significativo che proviene dalle ultime, spesso irridenti dichiarazioni del presidente filippino è la disparità nelle priorità tra gli USA, il Giappone, e i Paesi che hanno contenziosi territoriali con la Cina per isole e scogliere del Mar Cinese meridionale. Anche se alcuni obiettivi sono condivisi, primo tra tutti non chinare la testa di fronte alla assertività cinese, la percezione delle necessità e delle conseguenze è assai differente.
Per gli USA, bloccare Pechino prima che assuma il controllo del Mar Cinese meridionale significa, al di là della salvaguardia della libertà di navigazione e della sovranità di Paesi amici come Vietnam e Taiwan, negare alla Cina la possibilità di diventare una potenza navale in grado di dispiegare ovunque, anche nel Pacifico, vascelli da guerra e sommergibili dotati di missili. La visione globale dei rapporti internazionali, alla quale gli equilibri regionali sono subordinati, ha ovviamente la precedenza per gli americani. L’operazione “Libertà di navigazione”, che ha portato anche il mese scorso un incrociatore statunitense in acque rivendicate dai cinesi, si affianca in questo senso alla decisione di costruire il sistema di controllo Terminal High Altitude Air Defense in Corea del Sud, utile a monitorare la Corea del Nord ma anche la stessa Cina.
Per il Giappone, che con Abe Shinzo si è impegnato ad accrescere la cooperazione con i Paesi che apparivano più agguerriti nei confronti di Pechino come Filippine (fino a ieri) e Vietnam, l’imperativo strategico che impone di contenere la Cina, costringendola a concentrarsi (e possibilmente a cedere) sul Mar Cinese meridionale, è un altro. Se Pechino raggiunge i suoi obiettivi nel Mar Cinese meridionale, tenterà infatti di ripetere l’operazione verso Oriente, ovvero interferendo nella sovranità nipponica: questo almeno si teme a Tokyo, con l’aggiunta che non tutti si fidano della reale volontà americana di rischiare un conflitto aperto con la Cina qualora questa tentasse di impadronirsi delle isole Senkaku (come ha fatto nel 2012 con lo Scarborough Shoal).
Queste preoccupazioni sono estranee alle Filippine e agli altri Paesi rivieraschi del Mar Cinese meridionale. Le subiscono e magari le sfruttano. Ma per loro ciò che conta sono gli aiuti allo sviluppo e la mancanza di interferenze politiche. Quanto agli accordi commerciali, l’apparente tramonto della Trans Pacific Partnership, firmata da Obama ma con una ratifica molto incerta, rappresenta un motivo in più per battere altre strade, magari targate Pechino. In poche parole, sono essenziali i risultati concreti facilmente spendibili con l’opinione pubblica, come il ritorno dei pescatori filippini nelle acque dello Scarborough Shoal occupate dai cinesi, annunciato il 30 ottobre.
Le ultime mosse di Duterte rispecchiano questo atteggiamento – sebbene sembrasse che gli accordi di difesa supplementari del 2014 con gli USA, e la richiesta di intervento della Corte dell’Aja voluti dalla precedente amministrazione Aquino, indicassero per Manila il ritorno a un allineamento con Washington paragonabile a quello degli anni della guerra fredda. Come ha sottolineato un giornale autorevole come il Nihon Keizai Shinbun (Nikkei), ormai la situazione è cambiata: le opportunità politiche e la diplomazia non sono più determinanti, perché altri fattori, legati ai flussi della globalizzazione, concorrono a orientare le decisioni dei governi. Il risultato è che il contenimento della Cina diventa un concetto fluido, variamente interpretabile. La hard security su cui puntavano le Filippine di Benigno Aquino, in corrispondenza con le aspettative di USA e Giappone, non poteva non subire i colpi del soft power cinese, basato sulla irresistibile forza del denaro.
Le Filippine, però, in questo senso non fanno da apripista: più che altro si adeguano a un diffuso operare.
Il Vietnam, che pure vanta indiscutibili credenziali anticinesi, si era già mosso nella stessa direzione: ostentando un parallelismo di trattamento tra cinesi e americani. Alle navi di entrambi è stato consentito l’accesso nello strategico porto di Cam Ranh. La Thailandia, un tempo un pilastro della presenza americana nell’area, si è avvicinata alla Cina dopo le rampogne di Washington seguite al colpo di stato militare del maggio 2014; la morte di re Bhumibol, noto amico degli Stati Uniti, non migliorerà ora la situazione. Anche la Birmania, pur tornata alla democrazia, è tutt’altro che disposta a chiudere le porte ai cinesi. Semmai, per non legarsi troppo agli USA, cerca la sponda di Tokyo (dove subito dopo Duterte è giunta Aung San Suu Kyi). L’Indonesia, colosso dell’ASEAN, non ha mai nascosto di volere trarre il massimo profitto dalla competizione tra le potenze che la corteggiano.
Ancor più significativamente, la Malesia è da mesi in rotta di collisione con gli Stati Uniti e ha nel contempo inaugurato un costruttivo dialogo con Pechino che ricalca gli sviluppi del cambiamento verificatosi a Manila. Se Duterte non ha digerito le critiche americane alla sua “guerra alla droga”, il premier malese Najib Razak si è rivolto a Pechino per controbilanciare le accuse di irregolarità finanziarie rivolte dal Dipartimento alla giustizia americano al suo fondo statale 1MDB. La Cina ha rattoppato la situazione comprando asset del fondo per 2,5 miliardi di dollari e ora si appresta addirittura a vendere alla Malesia navi “litoral mission” portaelicotteri dotate di missili. Anche Razak è volato a Pechino il 30 ottobre, per una visita di una settimana, quasi che tali pellegrinaggi siano parte sostanziale della presa di distanza dal Pivot to Asia.
Il Giappone, in un simile contesto, può diventare una sorta di ancora di salvezza per gli USA, fermo restando che nell’ottica nazionalistica del governo Abe è auspicabile una crescita del peso strategico del Paese anche al di fuori dell’alleanza con Washington (oltretutto nella speranza di intese “storiche” con la Russia di Putin). Tokyo infatti dispone di alcune carte che mancano agli USA. Non presenta controindicazioni, ad esempio, nei confronti di chi, come Duterte, rispolvera il principio dell’Asia agli asiatici. Sul piano economico ha una presenza forte e ben sperimentata (è ad esempio il principale partner commerciale delle Filippine e il principale fornitore di aiuti pubblici), ma meno invasiva di quella americana, essendo meno rigido nel pretendere leggi liberiste e norme chiare sugli investimenti, oltre che più cauto su temi politici come il rispetto dei diritti umani (Abe ha evitato ogni critica a Duterte per la sua guerra alla droga).
In questo senso il Giappone può entrare in più diretta competizione con la Cina. E con la Cina è competitivo anche su uno dei grandi business di oggi, quello dell’Alta velocità, su cui tutta l’area ASEAN sta basando la sua modernizzazione.
Certo, se il gioco si fa duro, come nel caso delle Filippine, lo strapotere cinese si fa sentire. Abe ha potuto promettere a Duterte 48 milioni di dollari da investire nell’agricoltura più altri 200 per due guardacoste di grandi dimensioni (da aggiungere ai dieci guardacoste da 40 metri già messi in cassaforte). Ben poca cosa rispetto ai 24 miliardi di dollari di investimenti e crediti a basso interesse, più l’abolizione alle restrizioni sui prodotti tropicali, promessi dai cinesi alle Filippine. Abe dovrà escogitare contromisure, cominciando forse dal liberarsi delle sovrastrutture ideologiche del nazionalismo giapponese, che fanno riaffiorare nei partner asiatici vecchi rancori.