Il piano di Trump per Gaza e il diritto internazionale
Traballa il precario accordo di cessate il fuoco siglato tra Israele e Hamas, con la mediazione di Egitto e Qatar, lo scorso 15 gennaio. A gettar benzina, semmai ce ne fosse stato ancora bisogno, sulle fiamme alte che già bruciano il Medio Oriente, arrivano le dichiarazioni rilasciate a più riprese dal Presidente americano Donald Trump a proposito del futuro di Gaza. Nelle ultime settimane, tra sconcerto e sorpresa, se ne discute nelle cancellerie di mezzo mondo.
L’intesa tra Trump e Netanyahu
La proposta che vorrebbe la Striscia “consegnata agli Stati Uniti da Israele alla chiusura dei combattimenti” e la sua intera stremata popolazione “reinsediata altrove”, verosimilmente tra Egitto e Giordania, è forse la più clamorosa mai avanzata (e, neanche a dirsi, anche quella accolta con maggiore entusiasmo da Tel Aviv) in quasi 80 anni di conflitto.
Il magnate appena riaccomodatosi allo Studio Ovale pare deciso a dare ulteriore slancio alla linea israeliana in Medio Oriente, non in ultimo accreditandosi come il primo Capo di Stato a ricevere con onore il capo del governo israeliano Benjamin Netanyahu dopo il mandato d’arresto spiccato dalla Corte Penale Internazionale per crimini contro l’umanità e crimini di guerra commessi almeno dall’8 ottobre 2023. Trump era stato anche il primo, nel corso del suo primo mandato, a riconoscere Gerusalemme quale capitale dello stato di Israele, trasferendovi persino l’ambasciata americana, e a legittimare l’annessione israeliana delle Alture del Golan.
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E ora si spinge fino a presentare come una necessità umanitaria, ma anche un’importante opportunità politico-economica, quella di “prendere il controllo” di un “bellissimo pezzo di terra” ridotto dalla guerra a “un grande cumulo di macerie [..] inabitabile”, che i palestinesi “non hanno alternativa” che lasciare in favore di “comunità più belle e sicure, un po’ lontane da dove si trovano, dove c’è tutto questo pericolo”, per riqualificarlo e farne un grande sito immobiliare, una nuova “Riviera del Medio Oriente” di proprietà e sotto responsabilità USA.
In un preoccupante riecheggio della Nakba, la ‘catastrofe’ del 1948 che costrinse 750mila arabi palestinesi a cercare rifugio oltre confine per consentire la nascita dello stato di Israele, come anche della Naksa del 1967, quando, con l’allargamento dell’occupazione israeliana sull’intera Palestina storica, una seconda ondata di espulsioni di massa colpì la popolazione tra Cisgiordania, Gerusalemme Est e Striscia di Gaza (oltre che sulle siriane Alture del Golan e sulla penisola egiziana del Sinai), anche il nuovo programma per la Gaza postbellica immaginato dalla Casa Bianca non sembrerebbe prevedere alcun diritto al ritorno per i 2 milioni e poco più di Gazawi che sarebbero spinti fuori dalla Striscia: “sto parlando di costruire un posto permanente per loro”, è stata l’ultima conferma nelle parole di Trump.
L’opzione, seppur improbabile nella sua realizzazione vista anche la complessa realtà geopolitica della regione, è insostenibile però anche solo nella formulazione.
Innanzitutto perché Israele è una potenza occupante (anche) sulla Striscia e non può, in alcun modo accettabile sotto il profilo del diritto internazionale, cederla a chicchessia. Piuttosto, come stabilito dalla sentenza della Corte Internazionale di Giustizia dello scorso luglio, Israele avrebbe, tra gli altri, l’obbligo di porre fine a una presenza che è illegale e che gli Stati membri delle Nazioni Unite, Stati Uniti inclusi, avrebbero il dovere di non riconoscere né supportare.
“Se gli Stati Uniti prendessero il controllo di Gaza nel modo descritto da Donald Trump, diventerebbero essi stessi una potenza occupante“, è la sintesi della co-direttrice dell’Oxford Institute for Ethics, Law, and Armed Conflict, Janina Dill. Tra conquista di territorio e violazione del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese, già questo basterebbe a che una chiara violazione dei principi fondamentali del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni Unite possa dirsi pienamente realizzata.
Quanto prospettato quale soluzione della questione palestinese sarebbe poi di fatto un caso da manuale di pulizia etnica, avvertono esperti e gruppi per i diritti umani. Lo dice anche l’ONU.
Il caso della pulizia etnica
Sul tema è d’obbligo un chiarimento. L’espressione “pulizia etnica” è stata legata a quanto accade (non da oggi) a Gaza rispetto all’insieme dei crimini di guerra e contro l’umanità relativi agli spostamenti forzati dei palestinesi. Spesso il termine è stato utilizzato anche per riferirsi ai piani di espansione degli insediamenti dei coloni israeliani o ai progetti di annessione dei Territori Palestinesi Occupati, come anche agli sfollamenti nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme Est. Oggi andrebbe a definire il proseguimento, anzi l’accelerazione, da parte degli Stati Uniti di una campagna sistematica di espulsione che, tra demolizioni di case, sfratti, distruzione e furto di risorse naturali e costruzione deliberata di insediamenti coloniali illegali, va avanti ad opera di Israele di fatto da poco meno che 80 anni.
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Questa precisazione è dovuta perché il concetto di pulizia etnica, che ha fatto il suo ingresso nel vocabolario internazionale solo nei primi anni ’90, emergendo nel contesto dei conflitti scoppiati nell’ex-Jugoslavia, è in senso stretto ancora assai controverso.
È riconoscibile nella realizzazione di una politica intenzionalmente diretta a modificare la composizione demografica di un territorio “per renderlo etnicamente omogeneo” – così recita il rapporto S/1994/674 a firma della Commissione di esperti delle Nazioni Unite per l’ex-Jugoslavia – e può compiersi attraverso una lunga serie di atti di violenza o intimidazione, dall’omicidio fino agli attacchi militari deliberati o minacce di attacchi contro civili e aree civili, passando per il confinamento della popolazione civile in aree ghetto e l’espulsione forzata, sfollamento e deportazione della popolazione civile, che “possono costituire crimini contro l’umanità e possono essere assimilati a specifici crimini di guerra [..] e anche rientrare nel significato della Convenzione sul genocidio”.
Ma nonostante il Consiglio di Sicurezza e l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite abbiano inquadrato la pratica come sicuramente contraria al diritto internazionale, nonostante ci sia un riconoscimento anche tra sentenze e incriminazioni del Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia (ICTY), nonostante la Commissione preparatoria per la Corte Penale Internazionale abbia chiarito che essa potrebbe addirittura costituire tutti e tre i reati nella giurisdizione della Corte, la pulizia etnica manca ancora di una sua propria definizione giuridica specifica e non è mai stata individuata, in alcuna convenzione internazionale né tantomeno sul piano consuetudinario, quale crimine indipendente. Con tutte le conseguenze del caso sul fronte dell’azione penale internazionale nei confronti dei responsabili.
Allora, specificano i giuristi internazionalisti, la visione di Trump andrebbe più precisamente ricondotta entro la cornice giuridica del trasferimento forzato di popolazione civile da (o anche all’interno di) territorio occupato, che è già in sé e per sé un crimine internazionale.
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La cornice giuridica del trasferimento forzato
Lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, che dal 2015 ha giurisdizione anche sui presunti crimini commessi in territorio di Palestina, lo definisce quale crimine di guerra e, se parte di un attacco diffuso e sistematico contro i civili, anche crimine contro l’umanità. E ancor prima, figura tra le gravi violazioni della IV Convenzione di Ginevra e dei Protocolli aggiuntivi del 1977, che oggi sono ratificati universalmente e sono dunque parte integrante del diritto consuetudinario.
Fatte salve le poche specifiche eccezioni, che comunque garantiscono agli sfollati il diritto al ritorno nell’immediatezza della chiusura delle ostilità, sulla questione vige un divieto assoluto, indipendentemente dal motivo e della destinazione. Come parimenti è assoluto il divieto cosiddetto di colonizzazione, per cui è proibito il trasferimento di parte della popolazione della potenza occupante nel territorio occupato.
Dunque, la strategia americana sarebbe priva di ogni legalità, da qualunque punto di vista la si guardi: “Trump è tristemente ignorante del diritto internazionale e del diritto di occupazione. Lo spostamento forzato di un gruppo occupato è un crimine internazionale ed equivale a pulizia etnica. [..] Non c’è modo, secondo la legge, che Trump possa mettere in atto la minaccia di sfrattare i palestinesi dalla loro terra“, ha dichiarato alla rivista Politico Navi Pillay, presidente della Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite sui Territori Palestinesi Occupati.
Insomma, dovessero mai mettere in pratica le dichiarate intenzioni del Presidente, gli Stati Uniti rischierebbero non più solo di essere complici (a mezzo dei trasferimenti di armi e altre vie di supporto militare) dei crimini di guerra di Israele, che porta avanti “una calcolata politica volta a rendere invivibili alcune parti della Striscia” provocando uno sfollamento forzato deliberato e massiccio dei civili palestinesi a Gaza, ma andrebbero a porsi nella posizione di “dirigere la perpetrazione di atrocità”, denuncia Lama Fakih, direttrice per il Medio Oriente e il Nord Africa di Human Rights Watch.
Il disegno trumpiano rischia di sdoganare alla stregua di una banale scelta politica un progetto che, se mai attuato, costituirebbe una flagrante grave violazione dei fondamenti del diritto internazionale. Oltre che segnare un drammatico passo in avanti verso la normalizzazione di “un mondo senza legge dominato dalla forza bruta che mette in pericolo tutti”, per citare la forte presa di posizione dei Relatori Speciali delle Nazioni Unite decisi a mettere in guardia la comunità internazionale sull’urgenza di scongiurare un ritorno “ai giorni bui della conquista coloniale” che avrebbe conseguenze devastanti per la pace e i diritti umani a livello globale.
La reazione internazionale
I leader del mondo arabo si stanno impegnando a definire una posizione unificata (come forse non era mai accaduto) contro qualsiasi tentativo di muovere i palestinesi da Gaza, che minaccerebbe la fragile stabilità del Medio Oriente e comprometterebbe irrimediabilmente ogni sforzo per raggiungere la tanto attesa soluzione a due Stati. Ma è ben più ampio il rigetto incassato dal piano Trump. Dalla Cina al Brasile, dalla Russia alla Turchia, sono arrivate dure condanne ai proclami statunitensi. E non sono stati meno critici gli alleati europei: Germania, Francia e Regno Unito tra tutti.
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Tra una dichiarazione e l’altra, però, alla vigilia del secondo round di negoziati tra Israele e Hamas, l’esercito israeliano riceve ordini per la pianificazione dell’uscita “volontaria” dei palestinesi da Gaza e il governo Netanyahu mette fuori discussione anche la possibilità che l’Autorità Nazionale Palestinese governi la Striscia all’indomani della conclusione della guerra dicendosi piuttosto “impegnato nel piano Trump per la creazione di una Gaza diversa”.
A quali scenari l’asse USA/Israele aprirà la strada, per Gaza e per il Medio Oriente tutto, è ancora difficile a dirsi. Quel che è certo è che nel frattempo a Gaza si continua a morire.
L’ultimo bollettino del Ministero della Salute di Gaza, aggiornato al 18 febbraio, conta oltre 48.200 morti e quasi 112.000 feriti nella Striscia. Sarebbero come minimo un centinaio quelli uccisi e più di 800 quelli rimasti feriti nell’ultimo mese, nel pieno della prima fase della tregua.
Il tasso di mortalità reale sarebbe almeno del 41% più alto, secondo uno studio appena pubblicato dalla rivista Lancet che di morti per lesioni traumatiche a Gaza ne ha stimati più di 64.200 (parliamo del 2,9 % della popolazione della Striscia prima del conflitto) solo tra il 7 ottobre 2023 e il 30 giugno 2024, quando i dati del MoH non toccavano ancora quota 38.000. Senza considerare poi tutte le altri morti, i cosiddetti decessi indiretti dovuti alla catastrofe umanitaria creata dal conflitto: sono assai difficili da misurare, ma stando a uno studio diffuso recentemente sempre da Lancet supererebbero di 4 volte il numero delle vittime dirette della violenza armata.
A questo punto, tra l’una e l’altra conta, i morti della guerra di Gaza potrebbero essere oltre 250.000. Numeri di per sé impressionanti, che sono la manifestazione tragica di un problema che è anche giuridico e dovrebbe riguardare chiunque abbia a cuore il diritto internazionale.