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Il paradosso Brexit: Regno Unito diviso, UE coesa

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You cannot simultaneously retain your cake and eat it. La Brexit non fa altro che ricordarci questo antico detto britannico, omologo del nostro “Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca”. Del resto, la stessa Theresa May, quando era Segretario di Stato per gli affari interni del governo Cameron, sotto cui si è svolto il referendum del 23 giugno 2016, era fra i Tories “moderati” schierati per il Remain. Questo episodio è la madre di una sequela di contraddizioni politiche che da quel momento non hanno cessato di inanellarsi, senza posa.

Di ritorno dal suo tour europeo dopo il rinvio del voto alla Camera dei Comuni sugli accordi stretti con l’UE – il Withdrawal Agreement ufficializzato il 25 novembre – la premier ha dovuto affrontare la mozione di sfiducia del suo partito: l’ha superata con 200 voti a favore, contro i 117 dei “congiurati” capeggiati dagli ex-membri del governo Boris Johnson e Dominic Raab, assieme al parlamentare Jacob Rees-Mogg. May gode ora della garanzia statutaria in base alla quale per un anno non potrà essere messa di nuovo in discussione la sua leadership, a fronte però dell’impegno a non candidarsi come leader dei Tories per le prossime elezioni. I suoi gli spazi di manovra sembrano comunque ridotti ai minimi termini: da un lato, Bruxelles non è disponibile a rivedere gli accordi stipulati proprio per rendere Brexit operativa dal 29 marzo 2019; dall’altro una sorta di variegata coalizione anti-May non cessa di dichiarare la sua insoddisfazione per quanto la premier è riuscita a strappare all’Unione Europea. Si tratta dei…. gli Hard Brexiteers, conservatori e nordirlandesi. Emblematico a questo proposito il passaggio di Boris Johnson alla Conferenza Tory del 2 ottobre scorso, in cui chiedeva una «elegant, dignified and grateful exit», riservando al Regno Unito la possibilità di commerciare in futuro con l’UE sulla base delle regole del WTO, perché – come sostiene da sempre l’ala radicale dei Tories – nessun accordo è meglio di un pessimo accordo. Ma il nodo sta proprio qui: il resto del Paese non sembra convinto che si possa rischiare lo scenario del “no deal”, dagli incerti contorni e conseguenze.

Trattative per la Brexit, vignetta di Joep Bertrams

 

In tale contesto, il punto maggiormente divisivo è rappresentato dal cosiddetto Northern Ireland backstop: in base a questa clausola, la frontiera fra Irlanda e Irlanda del Nord, che dopo la Brexit dovrebbe essere ricostituita come una frontiera esterna dell’Unione, sarà soggetta a una fase transitoria, in realtà indefinita, che continuerebbe a tenere l’Irlanda del Nord nel mercato unico e il Regno Unito nell’unione doganale. In altre parole, il termine backstop – mutuato dalla rete dei campi da baseball per significare “tutela”– indica il differimento della creazione di una nuova frontiera fra le due Irlande, espressamente richiesto da Bruxelles e voluto dagli irlandesi per evitare tensioni fra cattolici e protestanti. Il problema è dato dal fatto che la sussistenza del backstop congela di fatto la Brexit, rendendo ancora efficaci i regolamenti europei nel Regno Unito, almeno relativamente all’unione doganale, senza che lo stesso abbia più alcuna rappresentanza, e quindi alcun potere decisionale, dentro l’Unione Europea. Ovviamente questa soluzione non può piacere ai Tories “duri e puri”, perché rischia di separare l’Irlanda del Nord dal resto del Regno Unito e, nel contempo, tenerlo legato all’UE sine die.

Come extrema ratio, Theresa May evoca il precedente del “protocollo olandese”: nel 2016 i Paesi Bassi respinsero con un referendum l’accordo di associazione dell’Ucraina all’Unione Europea; pur senza modificare il trattato, in quell’occasione Bruxelles offrì all’Olanda un protocollo aggiuntivo che consentì al governo di far approvare il trattato dal parlamento. Per la premier britannica questo precedente potrebbe essere ripetuto per la Brexit, per esempio specificando in quella sede che il backstop ha valore soltanto temporaneo, finché non verrà trovata una soluzione definitiva per il confine fra Irlanda e Irlanda del Nord. Non è detto tuttavia che sarebbe sufficiente, perché senza dubbio Bruxelles non sarebbe disponibile a spingersi troppo in là nelle proprie rassicurazioni, e quindi gli Hard Brexiteers avrebbero gioco facile nel dirsi comunque insoddisfatti.

Giunti a questo punto, molti osservatori sono del parere che le soluzioni più radicali siano anche le più probabili: il no deal – ovvero l’uscita dall’Unione senza alcun accordo – oppure un nuovo referendum, che con ogni probabilità darebbe un esito a favore della permanenza nell’UE. Peraltro si deve sottolineare che il governo britannico ha chiesto alla Corte di Giustizia di pronunciarsi in merito alla possibilità per il Regno Unito di recedere unilateralmente dalla Brexit, revocando l’art. 50 del Trattato dell’UE senza il consenso espresso dei 27 stati dell’UE: la Corte ha fornito una risposta favorevole, che in sostanza rende meno impervia la strada verso un nuovo referendum. Il problema è chi potrebbe indire una nuova consultazione popolare – oltre che su quale quesito esattamente.

E’ interessante allora guardare più da vicino le posizioni dei partiti e dei gruppi d’interesse britannici. Gli Hard Brexiteers del Partito conservatore vogliono in primo luogo far fuori Theresa May per quelli che ai loro occhi sono degli imperdonabili errori politici: aver chiesto il parere della Corte di Giustizia per un secondo referendum e il tentativo di riaprire un negoziato con Bruxelles, senza passare prima dal voto del parlamento (a loro avviso, il voto contrario nei confronti dell’accordo sarebbe politicamente più efficace per porre il problema del confine irlandese). Di contro, i Tories moderati – che al momento sono ancora la maggioranza – sostengono gli accordi conclusi dal governo May, valutandoli come la miglior soluzione possibile alla luce delle posizioni non certo concilianti dell’Unione Europea.

Con i conservatori si schiarano i deputati del Democratic Unionist Party, partito protestante unionista dell’Irlanda del Nord, che dopo le general election del 2017 ha 10 seggi alla Camera dei Comuni, risultando determinante nella risicata maggioranza che sostiene il governo May.

Se i Conservatori vogliono la fine della May, senza passare da nuove elezioni, queste ultime le vuole invece fortemente Jeremy Corbyn, leader del Partito laburista, che tuttavia non guarda con favore allo svolgimento di un nuovo referendum: vorrebbe un nuovo negoziato che confermi l’uscita del Regno Unito dall’UE, fissando altre condizioni (non è chiaro quali potrebbero essere alla luce di quanto Bruxelles ha dichiarato non essere negoziabile). La posizione del Labour di Corbyn sulla Brexit è «Labour’s priority is to get the best Brexit deal for jobs and living standards», slogan che non significa molto di più della semplice conferma della Brexit. Nel contempo sono in atto forti pressioni da parte di alcuni opinion leader – il quotidiano The Guardian per esempio – per spingere il Labour a chiedere un secondo referendum sulla Brexit, così come da tempo viene reclamato dagli industriali britannici attraverso la loro principale organizzazione, la Confederation of British Industry.

Il prossimo passaggio sarà il voto della Camera dei Comuni sul testo del Withdrawal Agreement, che si dovrebbe tenere non oltre il 21 gennaio 2019: entro questa data Theresa May cercherà di strappare qualche piccola concessione dall’Unione Europea, senza probabilmente soddisfare la maggioranza del suo partito. Non è mai accaduto che l’Unione Europea riuscisse ad avere una posizione così coesa e univoca da parte dei sui 27 stati membri com’è avvenuto con la Brexit, mentre in nessun’altra occasione il Regno Unito è mai stato così diviso. Si scorgono una molteplicità di posizioni dalle ali estreme dei due partiti principali al centro dello spazio politico: queste ultime non sono ancora in grado di definire una posizione unitaria e coerente, ma sembra affermarsi sempre più una sensibilità diffusa che guarda criticamente all’esito del referendum del 2016, considerando che da allora la sterlina ha perso il 25% del suo valore rispetto all’euro e che con un eventuale no deal gli effetti sarebbero ancora più drammatici per l’economia britannica. Tuttavia, le posizioni degli attori politici rappresentano ancora una pluralità di minoranze non in grado di convergere su una posizione maggioritaria, sia essa a favore di nuovi negoziati con l’UE, oppure di nuove elezioni o addirittura di un nuovo referendum sulla permanenza nell’Unione. Lo stallo attuale si potrà superare soltanto nel momento in cui una di queste opzioni diventerà sufficientemente condivisa dagli attori politici in gioco.