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Il nuovo Re saudita: una transizione pragmatica tra forti pressioni regionali

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Sarà probabilmente un regno di transizione pragmatica quello di Salman bin Abdulaziz al-Saud, divenuto Re dell’Arabia Saudita a seguito della scomparsa, il 23 gennaio scorso, di Re Abdullah (il 91enne fratellastro che era in carica dal 2005). Re Salman, già Ministro della Difesa, ha 79 anni e, secondo numerose fonti, uno stato di salute già fragile. Occorre pertanto guardare con attenzione alla linea di successione degli Al-Saud, fin da ora.

Dal marzo 2014, il 69enne Muqrin bin Abdulaziz, ultimo figlio vivente del fondatore del regno, Abdulaziz Ibn Saud, è divenuto Crown Prince (Principe Ereditario), grazie a un discusso decreto emanato da Re Abdullah. Infatti, la madre del Principe Muqrin non è di lignaggio saudita, ma yemenita, e non figura tra le spose legittime del capostipite Abdulaziz. Alle spalle di Muqrin, di formazione militare, già Governatore di Hail e Medina, il nuovo Re saudita ha subito nominato, come è tradizione, un Vice-Principe Ereditario: si tratta del Ministro degli Interni Muhammad bin Nayef, una figura in ascesa della politica saudita. Proprio come Salman, questi fa parte per trasmissione paterna del cosiddetto “clan dei Sudayri”, il cerchio della famiglia reale più coeso e competitivo, che ha fin qui monopolizzato i ministeri-chiave fra interni e difesa. Mohammad bin Nayef, 55 anni (dunque giovanissimo per gli standard del regno) sta da tempo gestendo due spinosi dossier: antiterrorismo e rapporti con lo Yemen. Proprio il moltiplicarsi degli archi di crisi – insurrezionali o terroristici – lungo i confini sauditi è oggi la principale preoccupazione di Riyad.

La prima sfida che Re Salman dovrà affrontare è infatti la messa in sicurezza del perimetro saudita: il 5 gennaio, almeno tre guardie di frontiera sono morte durante l’attacco di un commando kamikaze nei pressi della città settentrionale di Arar, vicino al confine con l’Iraq – una frontiera che è diventata bersaglio di milizie sciite irachene e gruppi jihadisti legati al cosiddetto Stato Islamico. In Yemen, l’assedio armato degli huthi – i miliziani sciiti zaiditi del nord del Paese – al palazzo presidenziale (occupato dal 18 gennaio scorso) sta provocando il collasso delle istituzioni politiche e militari yemenite: in questa fase, sauditi (e statunitensi) non hanno un piano per tentare di portare Sana’a fuori dalla crescente spirale di violenza, anche settaria, che la repubblica arabica sta sperimentando. Uno scenario di frantumazione territoriale favorisce certamente l’espansione di Al-Qaeda nella Penisola Arabica nel sud yemenita, nonché l’aumento dell’influenza iraniana in molte zone strategiche del Paese. Più ampiamente, il rapporto dell’Arabia Saudita con le popolazioni arabo-sciite nelle monarchie del Golfo rimane teso. In Bahrein, dopo le elezioni parlamentari del dicembre scorso, i movimenti di protesta sciita, guidati da Al-Wefaq, sono tornati a protestare con regolarità e il Segretario Generale del gruppo, lo shaykh Ali Salman, è stato arrestato e verrà processato con l’accusa di sedizione. L’evento che potrebbe infiammare la regione orientale del regno e i vicini epicentri sciiti (intrecciandosi al malcontento di Manama) è però l’esecuzione della condanna a morte di Nimr Baqer al-Nimr, il religioso sciita saudita, guida spirituale della minoranza concentrata fra Qatif e Al-Ahsa, condannato alla pubblica crocifissione per “disobbedienza al re” e “terrorismo”; in Bahrein e in Yemen vi sono già state numerose manifestazioni di sostegno ad Al-Nimr.

Recentemente, Re Abdullah, preoccupato dalle molteplici incognite regionali, si era speso per sedare la competizione distruttiva fra Arabia Saudita e Qatar in Siria e soprattutto in Egitto. Gli occhi della nuova leadershipsaudita saranno dunque puntati anche su un’altra sfida: l’applicazione dell’Accordo di Riyad (negoziato in più fasi nel corso del 2014), che ha permesso agli ambasciatori saudita, emiratino e bahreinita di fare ritorno in Qatar, dopo il clamoroso ritiro del marzo 2014. Molti esponenti della Fratellanza Musulmana egiziana sono stati invitati a lasciare Doha e l’emittente satellitare della discordia, Al-Jazeera Live Egypt, che ha sempre seguito le proteste degli Ikhwan, è stata temporaneamente chiusa dalla casa madre. L’Emiro del Qatar Tamim al-Thani e il Presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi dovrebbero incontrarsi a metà marzo, durante l’Egyptian Economic Forum di Sharm El-Sheikh; lo scorso dicembre, un emissario del giovane Emiro ha già fatto tappa al Cairo per incontrare il Feldmaresciallo-Presidente. Dopo anni di politica estera di spregiudicato overstretch regionale, Doha si sta vistosamente riallineando ai dettami sauditi, pur di non rischiare l’isolamento nel Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG); ma il percorso di “normalizzazione” fra sauditi e qatarini potrebbe richiedere molto tempo, anche perché, oltre alla diffidenza reciproca, è infatti probabile che Doha porterà avanti, con discrezione, una linea politica simile a quella del passato.

Si potrebbe comunque lavorare sulla scia di alcuni risultati recenti, per quanto parziali. Re Salman era presente all’annuale summit dello scorso dicembre del CCG, che ha approvato la creazione di una polizia unificata (con sede ad Abu Dhabi) e annunciato l’istituzione di una joint naval force al largo del Bahrein, proseguendo nel processo di integrazione militare intra-CCG. Il complicatissimo percorso di unificazione dei comandi militari e anti-missilistici fra le monarchie del Consiglio di Cooperazione andrà avanti parallelamente alla formazione di un’alleanza militare formale anti-terrorismo (ma nei fatti già esistenti, si pensi ai raid emiratini dell’agosto 2014 in Libia partiti dal territorio egiziano) fra alcuni membri CCG (Arabia Saudita, Emirati, Bahrein), Giordania e Marocco, le altre monarchie arabe, più l’Egitto di Al-Sisi. Un progetto ambizioso che potrebbe però logorare la compattezza politica dell’organismo regionale del Golfo, specie se la rappacificazione fra Qatar ed Egitto dovesse riservare nuovi scossoni.

L’approfondimento della cooperazione militare nel CCG ha lo scopo, finora illusorio, di temperare la dipendenza saudita e delle monarchie gemelle dagli Stati Uniti, primi e unici fornitori esterni di sicurezza per il Golfo arabico. L’avvicinarsi di un accordo sul nucleare iraniano spaventa Riyad (oltre che Israele), ma potrebbe altresì spingere i sauditi a smussare la propria tradizionale ostilità politica verso l’Iran, proprio per non compromette la relazione, vitale, con Washington. Molto dipenderà dal tipo di discorso politico che Re Salman – e soprattutto i principi delle seconde generazioni, come Mohammad bin Nayef – saranno capaci di costruire, specie sul rapporto con l’Iran. In una fase regionale convulsa come l’attuale, vi è ancora il rischio che, a Riyad, sia il senso di “accerchiamento sciita” a prevalere (Bahrein, Yemen, regione orientale saudita, Iraq meridionale), rispetto a un ragionamento costruttivo, teso a ridurre l’instabilità del quadrante, che appunto deve necessariamente coinvolgere Teheran. Dopo l’incontro di New York, nel settembre 2014, fra i capi delle due diplomazie, il dialogo fra Arabia Saudita e Iran non è però decollato. Indebolire il cosiddetto Stato Islamico fra Siria e Iraq è però un obiettivo convergente fra sauditi e iraniani, anche se nel lungo periodo la decisione di Riyad di non ridurre la produzione giornaliera di petrolio, impedendo così il rialzo del prezzo mondiale (il barile è ormai sotto i $50) potrebbe generare nuove tensioni fra gli eterni rivali del Golfo. Anche per questo, dopo la stagione del muro contro muro settario, il regno di transizione di Salman bin Abdulaziz richiederà molto pragmatismo.