Il nuovo ciclo politico di Erdoğan: ambizioni e rischi
Il mattino successivo al trionfo elettorale del 1° novembre, Recep Tayyip Erdoğan è andato a pregare sulla tomba di Eyüp Sultan a Istanbul, uno dei più importanti santuari del mondo islamico. Salutato da una folla entusiasta e attorniato da giornalisti, il presidente turco ha dato la sua personale interpretazione del responso delle urne: “la volontà nazionale ha scelto la stabilità”.
Un governo forte e stabile – cioè un monocolore del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) – è infatti l’esito più rilevante e sicuramente non scontato di questa consultazione elettorale supplementare. Appena cinque mesi fa, nella tornata del 7 giugno, un vistoso calo nei consensi – da poco meno del 50% a poco meno del 41% – aveva reso indispensabile una coalizione che però i partiti non sono stati in grado di formare, con conseguente scioglimento dell’Assemblea nazionale e un governo ad interim sempre guidato dal premier uscente Ahmet Davutoğlu. Ne è seguito un periodo di profonda instabilità, con la ripresa delle ostilità da parte dell’organizzazione terroristica curda PKK, attentati sanguinosi di matrice jihadista (a Suruç, ad Ankara), il crollo della lira.
L’AKP ha condotto una campagna elettorale accorta e mirata: ha rivisto le candidature che non avevano funzionato, ha intensificato comizi e altre attività nei collegi in bilico, ha fatto sue alcune proposte populiste (salari, pensioni, benefici vari) delle opposizioni, ha dato molta meno rilevanza al progetto di riforma presidenziale che aveva dominato la campagna elettorale per giugno. Lo stesso Erdoğan, invece di impegnarsi in discorsi in piazza e di avventurarsi in dichiarazioni da leader di partito, ha finalmente assunto un ruolo più defilato e consono alla sua carica: ha sostanzialmente incarnato l’unità nazionale – “una nazione, una bandiera, una patria, uno Stato” – contro il caos interno e regionale. Un ruolo da vero statista. I risultati hanno dato loro ragione, a Erdoğan come alleader del partito Davutoğlu: anche aiutato da una maggiore affluenza (ha sfiorato l’87%), l’AKP ha ottenuto cinque milioni di voti in più rispetto a giugno, attestandosi al 49,5% dei consensi ed eleggendo 317 deputati su 550. Un risultato al di là delle attese, non previsto dai sondaggi: ha prevalso il timore di una spirale della violenza, di una crisi economica devastante provocate dall’instabilità politica.
Ad uscire sconfitti sono stati tutti gli altri, in maggior misura l’MHP nazionalista e l’HDP filo-curdo. Il primo ha pagato l’oltranzismo del proprio leader Devlet Bahçeli, che in aperto contrasto col suo elettorato ha chiuso le porte a ogni ipotesi di coalizione con l’AKP, meritandosi il soprannome di “Mr. No”: il risultato è un calo nei consensi dal 16,3% all’11,9% – due milioni in meno, soprattutto nelle roccaforti anatoliche e mediterranee – e nei deputati da 80 a 40. Il secondo è stato penalizzato dall’incapacità di prendere le distanze dalle violenze del PKK, una posizione che ha indispettito non poco chi li aveva votati a giugno – la sinistra radicale, i kemalisti – solo per assicurarsi che passassero la soglia di sbarramento del 10%, così da negare all’AKP un super-maggioranza e la possibilità di modificare da soli la costituzione; in sostanza, il 10,7% e 59 deputati sono un dato che meglio rispecchia la forza elettorale dell’HDP.
Non sono stati invece premiati i toni conciliatori e le posizioni apparentemente ragionevoli del CHP kemalista, che a conti fatti però ha anch’esso rifiutato l’offerta di Davutoğlu di una coalizione a termine – un anno, 18 mesi – per realizzare riforme condivise, mentre non è stato in grado di offrire un’alternativa di governo articolata e credibile. Il partito gravita dal 2011 attorno al 25% con poco più di 130 deputati, e non sembra in grado di rinnovarsi – mettendo in discussione i principi kemalisti che appartengono a un’era politica da tempo tramontata – per attrarre numeri significativi di nuovi elettori.
Quella dell’AKP è stata una vittoria apparentemente schiacciante, a valanga: eppure, analogamente al 2011, non si è trattato di un autentico trionfo. I 317 deputati ottenuti, pur se sufficienti a formare un governo monocolore per i prossimi quattro anni, non bastano per riformare in modo autonomo la costituzione; dunque, lo stallo degli ultimi anni rischia di riprodursi. In effetti, la riforma della costituzione è il tema decisivo per il futuro della Turchia, in cui ancora vige quella di stampo autoritario e militarista scritta dopo il golpe del 1980, che permea in chiave liberticida la legislazione in tema di diritti e di libertà fondamentali. Di un ripensamento complessivo, in grado di garantire un funzionamento senza troppi intralci dell’attività amministrativa e parità per tutti i cittadini senza differenze di etnia o religione, se ne parla dal 2007: ma la fase costituente della scorsa legislatura si è risolta in un nulla di fatto, sia per le ambizioni presidenzialiste di Erdoğan (vorrebbe un presidente eletto a suffragio universale e capo dell’esecutivo) sia per la rigidità ideologica delle opposizioni.
Nel suo discorso vittorioso dal balcone della sede dell’AKP di Ankara, però, il premier ha rilanciato: e ha chiamato tutte le forze politiche presenti in parlamento a collaborare per una riscrittura condivisa delle regole, di nuova costituzione “civile e liberale” come di una nuova legge elettorale e di una nuova legge sul funzionamento dei partiti, anch’essi vittima di regole fortemente autocratiche e penalizzanti per la democrazia interna. È molto presto per valutare come le opposizioni – kemalista, nazionalista, filo-curda – reagiranno alle sollecitazioni di Davutoğlu, ma il progetto presidenzialista rimane in piedi, e come tale costituisce oggettivamente un ostacolo al compromesso che non sembra assolutamente aggirabile. Ed è proprio questa la vera critica che va fatta all’AKP: la mancanza di un “piano B”, di un progetto alternativo e pur valido in assenza di una completa riforma di stampo presidenzialista.
Senza colpi di scena al momento imprevedibili, la Turchia continuerà a essere governata col modello ibrido che si è affermato dopo l’elezione di Erdoğan a presidente, che in base alla costituzione del 1982 gode di alcuni poteri incisivi – come la possibilità di convocare consigli dei ministri – e non è assolutamente confinato, come spesso ed erroneamente asserito, a un ruolo puramente cerimoniale. La buona armonia che prevale tra presidente e premier(ma che pure non ha impedito alcuni contrasti) garantisce la stabilità di questa incerta diarchia: ma un definitivo distacco da parte di Erdoğan dalle dispute politiche quotidiane, una presa di coscienza di rappresentare la collettività intera e non solo il proprio partito, è necessaria affinché la polarizzazione politica e la conflittualità interna che mettono a rischio la tenuta democratica del paese vengano gradualmente sanate.