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Il nodo di Hong Kong e il futuro della grande Cina: conversazione con Giorgio Cuscito

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Giorgio Cuscito è analista e studioso di geopolitica cinese e dell’Estremo Oriente. E’ curatore del “Bollettino Imperiale” di Limesonline e Consigliere redazionale di Limes – Rivista italiana di Geopolitica.

 

Aspenia Online: Almeno dal 1997 – la data del ritorno ufficiale dell’ex colonia britannica sotto la sovranità della Repubblica Popolare – Hong Kong è una sorta di punto interrogativo che aleggia sul modello politico ed economico cinese. In molti si chiedono perché la Cina scelga la via della repressione – dura e senza mezzi termini – nonostante anni di proteste sempre più forti, estese e ripetute nel tempo. Pechino non poteva scendere a compromessi, e magari perfino approfittare dello status speciale di Hong Kong sia per tentare qualche limitato esperimento di liberalizzazione e introduzione della “rule of law”? In fondo, il sistema politico cinese sta comunque attraversando una certa evoluzione, quantomeno nel rapporto tra politica ed economia, ad esempio a fronte del ruolo crescente della finanza e delle tecnologie digitali.

Giorgio Cuscito: Il piano della Cina è sempre stato la fine dell’autonomia politico-legislativa di Hong Kong, qualunque cosa accadesse. Pechino punta a preservare la specialità economica della ex colonia britannica, che consente alla città di fungere da porta d’ingresso per gli investimenti finanziari occidentali, necessari all’economia cinese. Ma non ha mai voluto trasformare Hong Kong in una democrazia, o in un sistema indipendente. Anzi, l’intensità delle proteste ha spinto nella direzione del pugno di ferro, un metodo che – ritengono a Pechino – può essere costoso in termini di consenso e reputazione nel breve periodo, ma che darà i suoi frutti nel lungo. Inoltre, le tensioni con gli Stati Uniti degli ultimi due anni hanno certamente alimentato l’intransigenza del regime cinese.

Una delle innumerevoli proteste contro la Legge sulla Sicurezza Nazionale a Hong Kong

 

AO: Per un osservatore esterno, è difficile immaginare che la Repubblica Popolare, col suo Partito unico, il suo apparato repressivo, e l’ossessione per i pericoli del dissenso interno, possa tollerare una specie di enclave di rule of law e relativa autonomia decisionale. Sembra che si tratti di un equilibro strutturalmente instabile. Ma qual è il nocciolo delle rivendicazioni di chi protesta a Hong Kong, che ha dunque scatenato lo scontro?

GC: Sicuramente quello del suffragio universale è un tema chiave. Nella “Basic Law”, la mini-costituzione regionale, c’è scritto che uno degli “obiettivi” giuridici dell’entità autonoma è il raggiungimento del suffragio universale per l’elezione del Chief executive, il capo del governo locale. Il complesso sistema con cui sono selezionati esecutivo e legislativo è solo apparentemente democratico. L’élite economica hongkonghese, fortemente connessa a Pechino grazie ai flussi finanziari e agli affari, ha un ruolo fondamentale in questo procedimento. Di qui il malcontento nella regione. Qualche anno fa la Cina aveva proposto una riforma per introdurre il suffragio universale, che però non intaccava il legame tra il capo dell’esecutivo locale e il governo centrale di Pechino. Alla fine il movimento pro-democrazia ha convinto il parlamento hongkonghese a respingere il progetto.

 

AO: Dunque abbiamo di fatto una coalizione di forze economiche e sociali nella città stessa che, almeno per ora, contrasta le spinte democratiche vere e proprie. Questo è un dato forse sottovalutato dall’esterno. Ma le corporazioni legali e finanziarie di Hong Kong non hanno comunque interesse in una maggiore autonomia?

GC: Come abbiamo detto, il legame con la Cina rende difficile all’élite economica di Hong Kong ribellarsi. Inoltre si sottovaluta che l’interpretazione della ”Basic Law” spetta, per legge, a Pechino. Hong Kong d’altronde non è mai stata realmente indipendente, nemmeno sotto il dominio britannico, né si aspettava di diventarlo nel passaggio alla sovranità cinese. Per i suoi cittadini, la legge sulla sicurezza nazionale del introdotta lo scorso 1° luglio conferma una dinamica in corso da tempo.

 

AO: Perché allora la generazione giovane e giovanissima che ha dato vita alle proteste, e ha anche saputo mantenerle in vita nel tempo nonostante tutto, ha scommesso così tanto sul cambiamento?

GC: Questo gruppo demografico è cresciuto in un contesto più libero, in un periodo in cui la normalizzazione di Hong Kong sembrava lontana. Ad esempio, l’accesso a internet è sempre stato libero, anche se la legge sulla sicurezza nazionale ormai potrebbe stravolgerlo. Le principali piattaforme hanno deciso di sospendere la collaborazione con le autorità, cosa che invece facevano prima in caso di reati, perché anche esprimere la propria opinione su alcuni temi sensibili ora può portare al processo e al carcere in Cina. Ora l’arresto può arrivare con tantissimi pretesti, la libertà di pensiero e di espressione sono seriamente messe a rischio. Alcuni leader del movimento di protesta pianificano di fuggire all’estero per continuare le loro attività politiche.

I giovani, spesso anche minorenni, sono stati i grandi protagonisti delle proteste (e i più colpiti dalla repressione) contro l’ingerenza cinese a Hong Kong

 

AO: Siamo insomma di fronte a un problema generazionale: almeno alcuni residenti di Hong Kong hanno davvero aspettative di maggiore libertà, se non di vera autonomia politica. Ma non sarebbe in fondo una liberazione, per la Cina, se decidessero di andarsene?

GC: In realtà sarebbe un problema, forse un boomerang, perché possono alimentare da lontano il malcontento a Hong Kong. Ad esempio dagli Stati Uniti, dal Regno Unito, paese che per le nuove generazioni rappresenta la libertà che la Cina vuole negare, anche se durante il regime coloniale la libertà non c’era affatto, o da Taiwan. L’isola di Formosa potrebbe diventare un centro di dissidenti, allontanandosi ulteriormente dal sentiero di riunificazione (dopo la separazione sancita nel 1949) con la terraferma che immagina Pechino.

La situazione geografica di Hong Kong

 

AO: C’è quindi un rischioso legame – almeno dalla prospettiva di Pechino – tra la questione di Hong Kong e quella di Taiwan. Se i due problemi irrisolti si dovessero in qualche modo saldare, cambierebbe il quadro politico in modo profondo. Certo appare difficile immaginare che nel destino di Taiwan ci sia un rapporto costruttivo e stabile con la Cina Popolare.

GC: Al momento una riunificazione pacifica con Taiwan è assai improbabile e Pechino lo ha capito. Il governo cinese aveva proposto a Taipei la stessa formula in vigore a Hong Kong, e i taiwanesi hanno mostrato la loro contrarietà. Ne è prova la rielezione della presidente Tsai Ing-wen, che ora cerca il supporto degli Stati Uniti per scoraggiare la Cina dalla riunificazione manu militari. Eppure Taiwan, che dista solo 150 chilometri dalla terraferma, è necessaria alla proiezione geopolitica cinese: sarebbe un fondamentale punto di accesso all’Oceano Pacifico. Romperebbe infatti la cosiddetta “prima catena di isole”, che separano la Repubblica Popolare dal mare aperto. Tuttavia, la posizione cinese sulla riunificazione con Taiwan non è monolitica: è in corso un dibattito all’interno delle stesse forze armate cinesi sul se, come e quando invadere l’isola.

La presidente di Taiwan Tsai-ing wen ospite alla Columbia University di New York

 

AO: Esiste chiaramente un contesto geopolitico molto delicato attorno alla questione di Hong Kong – e non soltanto per la “Joint Declaration” tra Pechino e Londra del 1984 che teoricamente è ancora in vigore e che prevede di non modificare lo status politico di Hong Kong per cinquant’anni dal 1997, cioè fino al 2047. Visto il legame con l’intero scacchiere dell’Asia-Pacifico, però, il problema è ben più complesso, coinvolgendo inevitabilmente gli Stati Uniti in quanto garante della sicurezza di Taiwan e della libertà di navigazione nell’intera regione. Resta da vedere se le pressioni internazionali possono giocare un ruolo nella questione di Hong Kong, o rischino addirittura di essere addirittura controproducenti.

GC: Le pressioni anglo-americane possono alimentare il malumore a Hong Kong, perché la popolazione ormai ha perso ogni fiducia nel governo cinese; recuperarla dopo aver fatto passare la legge sulla sicurezza nazionale è assai complesso. Già la legge sull’estradizione, che consentiva di aggirare il sistema giuridico legale di Hong Kong trasferendo i processi sotto il sistema del regime cinese, è stata considerata una gravissima offesa all’autonomia locale. Ma la legge sulla sicurezza nazionale non solo restringe le libertà di base, ma en passant consente anche l’estradizione – aggirando il parlamento e il potere locale. In questo quadro, è facile per l’Occidente apparire come il salvatore, come il liberatore, offrendo ad esempio passaporti, asilo o corsie preferenziali per la cittadinanza.

Washington e anche Londra (che appunto non garantiva affatto un regime democratico durante il periodo coloniale, ma che concesse il suffragio universale solo poco prima di riconsegnare la città alla Cina) possono capitalizzare un dividendo geopolitico. La questione di Hong Kong può entrare in tutte le trattative degli Stati Uniti e del Regno Unito, sul commercio, sul 5G, con la Cina. I paesi dell’Europa continentale sono più tiepidi. Certamente però la questione di Hong Kong può pesare anche nei rapporti con l’Unione Europea, che ultimamente si sta irrigidendo sul fronte tecnologico. I diritti umani, insomma, possono diventare moneta di scambio. L’Europa può chiedere di più sul fronte commerciale e degli investimenti, in cambio di una minore pressione cinese su Hong Kong. La Cina, quindi, fa i conti con gli oneri della sua presenza globale.

 

AO: Fare i conti con ambizioni globali significa però anche prendersi nuove responsabilità, e forse accettare compromessi che prima si credevano impensabili. Non è chiaro se vi sia una vera dinamica politica interna alla Repubblica Popolare che potrebbe metter in dubbio l’attuale gestione di Hong Kong. Ed è molto difficile capire, dall’esterno, cosa pensino i cinesi della questione di Hong Kong. Pechino deve affrontare anche un “fronte interno” solidale con la protesta?

GC: In realtà, tra Cina e Hong Kong persiste una certa divergenza culturale, che non ha prodotto nessuna solidarietà politica. In media, i cinesi continentali pensano che gli hongkonghesi si sentano superiori, e che in più siano dei privilegiati, perché in fin dei conti hanno delle libertà e delle possibilità che nel resto del paese sono inammissibili. Quindi non comprendono le proteste, oppure le ritengono superflue, da “viziati” insomma. Gli abitanti di Hong Kong si sentono diversi, aperti, civilizzati, di fronte ai cinesi del continente che spesso considerano rozzi, ignoranti. Insomma Hong Kong non si considera “Cina”. Su questo argomento, l’opinione pubblica nazionale non è per ora un problema per Pechino. La priorità del governo cinese adesso è integrare gradualmente gli hongkonghesi nella Repubblica Popolare. Anche dal punto di vista culturale, instillando tra i giovanissimi la fedeltà al paese tramite il sistema scolastico.