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Il negoziato impossibile tra israeliani e palestinesi

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Circa 450mila coloni vivono nella West Bank (la fascia a occidente del Giordano, senza sbocco al mare), in circa 130 insediamenti e 100 avamposti. Altri 200mila vivono a Gerusalemme. Per i palestinesi, sparsi qui e lì in oltre 165 frantumi di terra, avere un proprio Stato è ormai un problema geografico, prima ancora che politico. Ma a essere in crisi non è solo l’idea dei due Stati: è l’idea dei due popoli.

Gli ultimi negoziati si sono avuti nel 2014. Sotto la spinta dell’amministrazione Obama. Ma oggi, se anche la priorità non fosse l’Ucraina, chi chiamare al tavolo? Chi ha l’autorità e l’autorevolezza per firmare un’intesa? E cioè: chi sarebbe poi capace di vincolare la “propria” parte a rispettarla?

Una donna palestinese e un soldato israeliano in Cisgiordania

 

In Israele si è votato cinque volte in quattro anni. Il quadro delineato nel 2015 dall’allora presidente Reuven Rivlin, e da allora, citato sempre più spesso, con gli israeliani sempre più divisi tra i laici, i religiosi, gli ultra-ortodossi e gli arabi, e sempre più estranei gli uni agli altri, si è calcificato. Quelle che venivano descritte come tendenze della società, ora sono i suoi connotati. Perché ora il governo c’è: ma Netanyahu, che è di nuovo Primo Ministro, è ostaggio dei coloni, senza cui non ha la maggioranza –  e senza la maggioranza, non solo non avrebbe il governo: non avrebbe l’immunità per i molti processi per frode e corruzione in cui è imputato. Il suo ministro per la Sicurezza, Itamar Ben-Gvir, fu esonerato dalla leva perché ritenuto troppo estremista. Troppo pericoloso.

Da tempo ormai i periodici bombardamenti di Gaza sembrano coincidere con momenti di tensione interna, più che con momenti di tensione con Hamas (che governa quella striscia di terra): sembrano essere un mezzo per sviare l’attenzione. Operazioni di distrazione, oltre che di distruzione. Ma da febbraio, l’interferenza della politica, e cioè degli interessi di parte, invece che dell’interesse nazionale, nelle questioni di sicurezza è nero su bianco. Gli insediamenti, e più in generale, l’Area C, quel 61% di West Bank che è ancora sotto il totale controllo israeliano, sono da sempre di competenza del ministro della Difesa. Ora, invece, a Bezalel Smotrich, il ministro delle Finanze, che è l’altro falco del governo, è stata affidata una nuova Settlement Administration con ampi poteri in materia di pianificazione e costruzione: e con rapporti ambigui con l’Esercito. Di chi sarà l’ultima parola?

 

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Smotrich è uno che sostiene che i palestinesi non esistono. Che sono una forma di propaganda araba. Come già gli ultra-ortodossi, i coloni non rispondono che a se stessi. E non sono solo contro gli arabi, ma contro tutti, diciamo così, i diversamente ebrei. Contro tutti quelli che hanno un’altra visione di Israele. Ma in più, sono armati. Gli israeliani sono sempre più estranei, ma anche ostili, gli uni agli altri. Mai come oggi non sono uniti che dal nemico. Non sono uniti che dai palestinesi.

E se in Israele si vota sempre, in Palestina invece non si vota mai. Le ultime elezioni sono state nel 2006. Il mandato di Mahmoud Abbas è scaduto nel 2009. Dell’Autorità Palestinese (che amministra circa il 40% della West Bank) non si sa molto altro. Perché per i palestinesi, e anche per tanta stampa internazionale, tutto deriva dall’occupazione. Del resto non ha senso parlare. Il resto, sarà affrontato a tempo debito. E d’altra parte: complicato parlare. Con la legge sulla Cyber Criminalità del 2018, si viene arrestati anche per un tweet. Il 24 giugno 2021, a Hebron, la polizia dell’Autorità Palestinese è entrata a casa di Nizar Banat, il più noto dei dissidenti, alle 3:30 di notte. Alle 6:45 è stato dichiarato morto per un attacco di cuore. L’autopsia commissionata dalla famiglia ha rilevato 42 ferite da sprangate.

Più del 30% del bilancio dell’Autorità Palestinese è destinato alla sicurezza. E quindi, i ventenni di questa specie di Terza Intifada non rispondono che a se stessi – almeno in apparenza. Non seguono Fatah e Hamas. Seguono Tik Tok. Seguono Instagram. Sono ventenni come mille altri, in felpa e Blundstone, ed è la loro forza: qui chiunque, ormai, in qualsiasi momento, può infiltrarsi oltre il Muro, imprevedibile, e arrivare a Tel Aviv, e sparare. Ma è anche la loro vulnerabilità. E contro Israele, addestrarsi alla Playstation non è sufficiente. Con i droni, le forze armate stanno eliminando tutti uno a uno.

Poi, in realtà, non è vero che Fatah e Hamas sono fuori dai giochi. Stanno dietro le quinte. A manovrare i fili. Basta farsi la domanda che non fa nessuno: chi paga per tutte queste armi? E per tutte le Audi, le Mercedes, le BMW che sempre più si notano in giro? Per essere usati, non è necessario essere arruolati. E basta osservare meglio le foto dei martiri, come si dice qui, le foto dei morti, che tappezzano i muri: spesso, con lo stesso M16 in spalla. Perché all’interno della conta dei morti c’è un’altra conta, quella dei militanti. All’interno dello scontro con gli israeliani, c’è un altro scontro: quello tra palestinesi. E mentre le famiglie pensano ai funerali, Fatah e Hamas pensano ai manifesti funebri. Pensano al marketing. Aggiungendo con Photoshop un M16 e il proprio logo a un selfie scattato per strada. Perché l’obbiettivo non è la fine dell’occupazione: è la successione a Mahmoud Abbas. Che ha 88 anni, e elezioni o meno, presto sarà costretto a un passo indietro. L’obiettivo è il potere.

 

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Ma ormai tutti qui hanno perso un padre, un figlio, un fratello. Tutti hanno un martire nella propria vita. E la resistenza ha una dimensione privata, personale, più che politica e collettiva. Non sono solo ‘i palestinesi’ a essere contro Israele: sei tu, individualmente, a essere contro Israele. Cercando non più giustizia, ma vendetta. Indipendentemente da tutto e tutti.

Non si avrà alcuna pace. Non per ora. Non si avrà alcuna tregua. Alcuna trattativa. Non sono le proposte a mancare: sono gli israeliani e i palestinesi.