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Il miracolo di De Gasperi

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Anche se meno presenti nella memoria collettiva rispetto al piano INA-Casa, all’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno e alla riforma agraria, quattro decisioni di politica estera economica propiziarono lo sviluppo postbellico dell’Italia. Esse si collocavano tutte nell’ambito della scelta a favore di una “economia aperta”, che, assieme al mantenimento e rafforzamento dell’”economia mista” (a partire dalla conferma dell’iri fondato nel 1933), fu uno degli assi portanti della ricostruzione. I due assi (economia aperta ed economia mista) avrebbero spesso interagito, se solo si pensa alle interlocuzioni e al rilievo internazionale di istituzioni come l’IRI, la Cassa per il Mezzogiorno, l’ENI, che dell’economia mista furono i pilastri.

L’economia aperta è da ricondurre ai convincimenti di Alcide De Gasperi e Luigi Einaudi. Ha scritto Guido Carli: “De Gasperi percepiva quanto fosse grande in quel momento la dipendenza dell’Italia dai commerci con gli Stati Uniti, e intese trasformare questo elemento di debolezza in punto di forza. Era interesse strategico del paese spingere per un’apertura delle frontiere commerciali, in maniera da trovare l’equilibrio non tanto riducendo il fabbisogno di importazioni, ma, al contrario, aumentando le esportazioni e stabilendo su questa base un legame con l’Occidente così stretto da renderne impossibile la rescissione. Fu un’intuizione politica”[i].

Alcide De Gasperi e Luigi Einaudi nel 1948

 

Nelle articolazioni, concretizzazioni e visioni, quella scelta molto doveva a quella cerchia di personalità che idealmente e nella pregressa esperienza pratica si riconoscevano in una politica di apertura: Guido Carli, Enrico Cuccia, Francesco Giordani, Ugo La Malfa, Giovanni Malagodi, Raffaele Mattioli, Donato Menichella, Sergio Paronetto. Erano uomini provenienti da due grandi “scuole”: la Comit di Mattioli (Cuccia, La Malfa, Malagodi), l’IRI di Beneduce (Carli, Giordani, Menichella, Paronetto). Fu in altre parole un’azione corale, o meglio di un piccolo coro polifonico, una minoranza attrezzata di idealità e di molteplici esperienze.

 

ANCORARE L’ITALIA ALL’OCCIDENTE. La prima scelta fu quella di aderire, appena fu possibile, alle istituzioni di Bretton Woods: la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (BIRS, la Banca mondiale) e il Fondo monetario internazionale (FMI). Come è noto, l’Italia non aveva in quanto paese co-belligerante partecipato alla conferenza di Bretton Woods del luglio 1944, che aveva disegnato gli statuti di entrambe le agenzie. Ma si era fin da allora molto adoperata affinché una via fosse aperta al suo ingresso, intuendo l’importanza e il significato delle due istituzioni: in generale, per il ritorno dell’Italia nella comunità economica internazionale; in particolare, da una parte, per la stabilità monetaria alla quale con l’adesione al Fondo ci si impegnava, dall’altra per il finanziamento dello sviluppo delle aree arretrate (leggi: Mezzogiorno) che la partecipazione alla Banca prospettava. In questo senso, l’ingresso dell’Italia nel marzo 1947 – precoce, per esempio, rispetto a quello del Giappone e della Repubblica Federale Tedesca, che avvenne solo cinque anni più tardi – fu determinante per l’ancoraggio politico ed economico all’Occidente, con un anno di anticipo rispetto alle elezioni dell’aprile del 1948.

 

Leggi anche: Il legame americano

 

Alle istituzioni di Bretton Woods il governo italiano inviò alcuni tra i suoi uomini migliori: Giorgio Cigliana Piazza e Guido Carli all’FMI; Costantino Bresciani Turroni e Francesco Giordani alla Banca mondiale. Furono soprattutto il giovane Carli, che riportava a Einaudi, e il professor Giordani (già successore di Beneduce alla presidenza dell’IRI), che riportava a Menichella, a farsi attivamente valere sul campo.

 

COOPERARE IN EUROPA PER LA RICOSTRUZIONE. La seconda scelta, una diretta derivazione della ricezione degli aiuti dello European Recovery Program (il piano Marshall), fu la partecipazione nell’aprile del 1948 all’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE che nel 1960 divenne OCSE). Gli Stati Uniti avevano posto come condizione che gli aiuti fossero amministrati in modo collegiale, favorendo l’integrazione tra i piani di ripresa, anzitutto in termini di liberalizzazione del mercato europeo, sbocco per l’esportazione di beni e tecnologie americani.

All’OECE, su suggerimento di Mattioli, il governo italiano inviò Malagodi, che tenne un diario nel quale sottolineò l’inscindibile unità del “momento interno” e del “momento esterno” per un paese come l’Italia. Ne denunciò la scarsa comprensione negli ambienti politici romani, fatta salva la cerchia di cui sopra, tanto che il governatore Menichella gli disse una volta, riferendosi a quanti come lui rappresentavano l’Italia all’estero: “non avrete mai degli indirizzi, al massimo potrete strappare qualche decisione”; o, ancora, “non esiste governo in Italia e, quindi, occorre salvaguardare la moneta e lasciare il resto a se stesso”. Il problema era nell’azione di ritorno: “Raffaele – scrisse Malagodi riferendosi a Mattioli – mi incoraggia a persistere e anche a fregarmene di avere o no istruzioni. Ma io gli spiego come il problema non sia quello di aprire fuori, ma di ottenere che all’azione fuori corrisponda l’azione interna”[ii].

Oltre al decisivo, tempestivo impulso per la liberalizzazione degli scambi, all’OECE iniziò a prendere forma uno spirito europeo. Malagodi lo raccontò molti anni dopo: “Il fatto che i paesi europei erano costretti a discutere i loro problemi non solo in termini nazionali, ma europei, fu estremamente utile […] uno degli strumenti più utili a creare una atmosfera di cooperazione consisteva nell’affidare l’esame della situazione di un paese a un altro paese, seguita da un attento esame di fronte a tutti i paesi. Ciò costringeva un inglese a conoscere i dettagli dell’Italia, o un italiano quelli della Grecia o dei Paesi Bassi, e ciò ruppe molte resistenze e superò molta ignoranza”[iii].

Con l’adesione alle istituzioni di Bretton Woods nel 1947 e la partecipazione all’OECE nel 1948 la costituzione economica del paese si arricchiva di contenuti in fatto di cooperazione, commercio e moneta che solo lentamente e faticosamente vi sarebbero entrati, in via più o meno permanente, rimanendo tuttavia sempre esposti agli alti e bassi dell’instabilità politica interna e internazionale, alla qualità delle classi dirigenti, ai pericoli della regressione e della reversibilità. Permane il monito di Menichella.

L’atto fondativo dell’OECE a Parigi nel 1948

 

APRIRSI AL COMMERCIO. Se le prime due scelte furono di collocazione geopolitica, prima che geoeconomica, quelle che seguirono furono di rafforzamento e di sviluppo, anche originale, di quelle iniziali premesse in un’ottica di propulsione dell’economia e dell’industria italiana.

La terza scelta fu infatti la liberalizzazione degli scambi voluta, nell’agosto del 1951, dal sesto governo De Gasperi e in seno a esso dal ministro per il Commercio estero Ugo La Malfa. Con questa decisione storica, l’Italia si poneva alla testa del processo di liberalizzazione in ambito OECE. Era un provvedimento contrastato dalle classi dirigenti, specie dalla Confindustria (con l’eccezione del presidente Angelo Costa e di pochi industriali) e dai sindacati, CGIL in testa, che temevano la concorrenza straniera e la perdita di posti di lavoro. L’intuizione di La Malfa era opposta: importare di più per esportare di più, ristabilendo l’equilibrio della bilancia estera a un livello più alto, coerentemente con la struttura dell’economia italiana, un’economia di trasformazione. D’accordo con De Gasperi, Menichella ed Ezio Vanoni, che più di altri lo sostennero, La Malfa abolì i contingenti e abbassò i dazi del 10%. La liberalizzazione riguardava per il 99% le importazioni, con l’eccezione di automobili e vino.

“Questo paese compresso, chiuso, autarchico – disse anni dopo La Malfa ricordando la svolta degli anni Cinquanta – ha cominciato a battere le vie del mondo, a respirare più profondamente. E il fatto non è stato solo economico. […] La società sprigionava energie compresse per un lungo periodo. Voleva respirare. E i governi, in parte, l’hanno sentito, e hanno offerto un quadro politico internazionale nel quale si potesse sviluppare tutto ciò”[iv]. Si trattava di un punto centrale per La Malfa: determinare le condizioni di base, sulle quali una società può sviluppare le sue energie, era inteso come compito primario di una classe politica.

 

CORRERE PER IL MONDO. La quarta scelta fu l’adozione, nel dicembre del 1953 (Governo Pella I, ma la gestazione era iniziata anni prima), di una legge per il credito all’esportazione, colmando il divario con altri paesi europei come Francia e Germania. La legge, proposta da Bresciani Turroni ma ispirata e preparata da Guido Carli, consentiva il finanziamento a medio termine delle esportazioni. Si trattava di uno strumento in grado di agevolare l’inserimento delle imprese nei mercati esteri e di portare l’industria e la tecnologia italiane nel mondo, specialmente nel Sud del mondo, dall’America Latina fino all’Africa subsahariana e all’Asia della decolonizzazione, incrociando le necessità e i piani di sviluppo dei paesi allora economicamente arretrati.

Questo processo apriva le porte a un nuovo ruolo dell’Italia in termini di diplomazia economica e peso nel mondo, ben oltre la Cortina di ferro e tra i paesi allora detti “non allineati”. Anche in questo caso la visione economica era ampia: “Le esportazioni dovevano essere finanziate non tanto in un’ottica di attenuazione dello svantaggio competitivo, quanto di una crescita globale del commercio internazionale. Far pagare in tempi lunghi l’acquisto di beni strumentali e infrastrutture – che avevano costi ingenti – a paesi privi di capitali favoriva la crescita degli scambi”[v]. A questo complessivo sforzo “di sistema” contribuirono, con le loro capacità di finanziamento, ma anche di immaginazione e prospezione, istituzioni finanziarie come IMI e Mediobanca (Mediocredito centrale per il rifinanziamento e INA per l’assicurazione dei rischi speciali)[vi].

Fu anche per questa via che imprese come ENI, Fiat, Montecatini, Necchi, Olivetti e moltissime altre aziende, private e pubbliche, iniziarono a correre per il mondo. Lo sviluppo delle esportazioni era dunque sostenuto dal credito bancario; l’intervento dello Stato si spostava dalla protezione al sostegno della competitività. L’Italia divenne paese esportatore di beni di consumo durevole e di investimento. Centrali, dighe, impianti furono costruiti in decine di paesi in via di sviluppo, stabilendo legami destinati a durare nel tempo.

In visita alla diga costruita da un consorzio di imprese italiane sul fiume Zambesi (Zambia), nel settembre 1966, da sinistra: Adolfo Tino (Presidente di Mediobanca), Guido Carli (Governatore di Banca d’Italia) ed Enrico Cuccia (a.d. e d.g. di Mediobanca). Fonte: Archivio Storico di Mediobanca

 

MANTENERE UN SISTEMA DI RELAZIONI VITALI. Il fatto decisivo – la corrente profonda che scorre sotterranea – è la progressiva ma definitiva trasformazione, grazie alle scelte assunte nel secondo dopoguerra, dell’Italia da paese prevalentemente agricolo a paese prevalentemente industriale; da paese esportatore di manufatti a esportatore di grandi impianti. In altre parole, in un grande paese industriale che ha rilievo internazionale in certa misura (ma solo in certa misura!) anche indipendentemente dallo specifico indirizzo di politica estera che conduce il governo. Ciò grazie alle esportazioni della sua industria (e al volume del risparmio delle sue famiglie), ma anche grazie alla capacità delle classi dirigenti di intrecciare fili e momenti diversi in un’azione politica ben salda nelle linee di fondo dell’atlantismo, dell’europeismo economico e politico e del multilateralismo.

Il contesto è oggi molto diverso da quello del secondo dopoguerra, perché differenti sono i pesi relativi dei continenti, Asia (e Cina) in testa, e dell’Europa e degli Stati Uniti in particolare, nonché per l’evoluzione, in corso, nei rapporti tra questi ultimi. Diversi, di conseguenza, sono opportunità e rischi. Ma pure nel nuovo contesto permane l’esigenza di coltivare un approccio di lungo termine in grado di collegare imprese e istituzioni, nazionali e internazionali, e di promuovere classi dirigenti credibili sul piano internazionale nel tentativo di sorreggere e sostenere gli elementi di tenuta e di sviluppo di quel sistema aperto di relazioni internazionali di cui l’Italia ha bisogno vitale, per le sue imprese e per i valori democratici e di libertà.

 

 


Note:

[i] Guido Carli, Cinquant’anni di vita italiana, a cura di Paolo Peluffo, Laterza, 1996 (1993), p. 61.

[ii] Giovanni Malagodi, Aprire l’Italia all’aria d’Europa. Il diario europeo (1950-1951), a cura di Giovanni Farese, Rubbettino, 2012, p. 53.

[iii] Oral History: intervista a Giovanni Malagodi, di T.A. Wilson, Roma, 15 luglio 1970, p. 5, consultabile sul sito della Harry S. Truman Library.

[iv] Ugo La Malfa, Intervista sul non-governo, a cura di Alberto Ronchey, Laterza, 1977, p. 53.

[v] Filippo Sbrana, Portare l’Italia nel mondo. L’imi e il credito all’esportazione, 1950-1991, il Mulino, 2006, p. 48.

[vi] Si veda Giovanni Farese, Mediobanca e le relazioni economiche internazionali dell’Italia. Atlantismo, integrazione europea e sviluppo dell’Africa, 1944-1971, Mediobanca, 2020.

 

 


Questo articolo è stato pubblicato sul numero 100 di Aspenia