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Il metodo Trump di fronte al cigno nero

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Quella del coronavirus è forse la prima crisi che Donald Trump si trova a gestire che non sia stato lui stesso a causare. Non è l’errore tattico che può essere coperto con un voltafaccia che ringalluzzisce l’elettorato, non è la contingenza che si può scaricare sugli avversari e non è nemmeno la solita crisi architettata ad arte in quel perenne laboratorio di copioni da reality show che è la Casa Bianca, luogo di conflitti e nomination, rimpasti e riedizioni.

La natura esogena del problema scompagina le carte della strategia del Presidente in vista della rielezione, introducendo elementi che lo costringono ad adattarsi alle circostanze, senza poter imporre la propria narrazione. È il terreno di gioco che Trump preferisce meno, e infatti dall’inizio ha tentato di trumpizzare anche la minaccia epidemiologica, prima minimizzando per ragioni di gestione del consenso (le catastrofi danneggiano sempre i presidenti), poi insistendo sull’elemento cinese, poi negando del tutto, chiudendo i voli per l’Europa, e infine cambiando ancora idea, ma non senza spiegare che lui “la considerava una pandemia quando ancora non era considerata una pandemia”.

Il passaggio immediato alla metafora bellica era inevitabile: “Siamo in guerra con un nemico invisibile, ma questo nemico non è minimamente paragonabile allo spirito e alla convinzione degli Stati Uniti”, ha detto, evocando poi i poteri emergenziali che il presidente può arrogarsi nelle circostanze più gravi.

Nonostante questi toni, nell’approccio all’emergenza si è realizzato il collasso di una leadership. La corte di “yes men”, i continui contrasti con gli ufficiali sanitari, l’inadeguatezza dei consiglieri, i disastri comunicativi di Donald Trump sono emersi con forza agli occhi dell’opinione pubblica, che nel frattempo non è rimasta indifferente alle terribili notizie che venivano dall’Italia, dall’Iran, e poi da Spagna, Francia, Germania e anche dall’Inghilterra di Boris Johnson, che doveva cambiare il paradigma della gestione del virus con una forte dose di cinismo utilitarista, e alla fine si è rimangiato ogni cosa.

La colata a picco della leadership presidenziale è stata peraltro evidente quando, nella gestione dell’emergenza, ha iniziato a prendere la parola Anthony Fauci, scienziato illustre a cui è affidata la commissione per la risposta al coronavirus. Che nell’ecosistema dell’amministrazione Trump potesse ancora esistere una tale combinazione di expertise, calma, ragionevolezza e chiarezza a una buona parte dell’America non è parso vero.

 

 

Anthony Fauci e Donald Trump

 

Il Presidente, dunque, si trova ad affrontare una crisi che non è auto-inflitta – perciò non gestibile con la solite tecniche – e che con grandissime probabilità porterà gli Stati Uniti in recessione entro l’anno. Una notevole complicazione. La crescita economica è uno degli elementi per riportare alla urne chi quattro anni fa lo ha votato turandosi il naso e per riconfermare il vecchio luogo comune secondo cui il presidente incumbent tende a essere rieletto quando l’economia va bene.

Detto altrimenti, nel giro di poche settimane il virus ha stravolto tutti i piani strategici di un presidente che era uscito indenne, e dunque politicamente rafforzato, dalla procedura d’impeachment e s’apprestava a godersi lo spettacolo di primarie democratiche particolarmente sanguinose che avrebbero estenuato gli avversari. La corsa a sinistra è stata combattuta, certo, ma a conti fatti – e considerando che Bernie Sanders è in procinto ormai di ritirarsi – si può dire Joe Biden ha vinto con una cavalcata rapida ed efficace. E la suprema emergenza gli permetterà di mostrare il suo volto presidenziale, qualità mai così in contrasto con la leadership della Casa Bianca.

 

Prima che la pandemia assorbisse l’attenzione dell’intero pianeta, Trump i suoi uomini sul campo avevano pianificato una strategia basata sul recupero delle aree suburbane di stati come il Michigan e la Pennsylvania – che il presidente ha vinto nel 2016 ma poi ha perso al midterm del 2018 –, sull’allargamento della mappa elettorale in zone moderate come New Hampshire e Minnesota e nell’elaborazione di nuovi messaggi per attirare il voto femminile e delle minoranze. Contando su un fondo già accantonato di 200 milioni di dollari, su un team capillare, sul clima da campagna elettorale permanente che è stato in grado di creare nel corso degli anni – non va dimenticato che Trump ha depositato i documenti per la candidatura al secondo mandato poche ore dopo essersi insediato – il presidente contava di potersi mettere avanti con le manovre sul campo, mentre gli avversari si azzuffavano. La pandemia ha sconvolto tutti i piani.