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Il mandato di arresto contro Putin: legalità e diplomazia

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L’ordine di arresto spiccato il 17 marzo dal Tribunale Penale Internazionale (ICC) contro il presidente russo, anche se ha scarse probabilità di essere eseguito, è un segnale importante di cui dovranno tener conto coloro che in Occidente e nel “terzo mondo” tendono a mettere Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky sullo stesso piano, considerandoli “due contendenti”.

Non è però uno sviluppo di cui ci si debba rallegrare: approfondisce infatti ulteriormente il fossato fra la Russia (con i suoi alleati) e quella che siamo soliti chiamare la “Comunità Internazionale”; e può provocare fratture anche in seno a NATO e UE: l‘Ungheria ha già dichiarato che non intende eseguire, se del caso, quell’ordine – pur essendo membro del Tribunale, come del resto tutti i Paesi UE. Se numerosi Paesi extra-europei tra quelli che di fronte al conflitto hanno assunto una posizione di equidistanza seguiranno questo esempio, ne uscirà incrinata la credibilità del Tribunale.

 

Il provvedimento si riferisce solo a uno dei crimini di guerra commessi sotto la responsabilità di Putin su cui all’Aja si sta indagando: la deportazione di bambini dalle zone occupate. È un atto dovuto, dal momento che le autorità ucraine hanno raccolto e sottoposto al Tribunale dell’Aja un‘ampia documentazione in merito. Potrebbe essere seguito da altri, per le bombe su ospedali e scuole, l’assassinio di civili e prigionieri, le torture, etc. Per il fatto più grave, da cui discende tutto il resto – l’aggressione militare – il TPI non ha competenza, dato che Russia e Ucraina non hanno ratificato il trattato istitutivo della Corte (come del resto gli Stati Uniti).

La pronuncia dell’Aja non intaccherà il sostegno della maggioranza della popolazione russa (il 70-80% secondo i sondaggi) al suo presidente. Anzi, sarà vista dai più come una conferma dell’asservimento delle istituzioni internazionali con sede in capitali occidentali alla egemonia degli Stati Uniti. La propaganda del Cremlino ha buon gioco a presentare la deportazione dei bambini come una operazione umanitaria, in quanto si tratterebbe di ospiti di orfanotrofi danneggiati, di orfani di guerra, di minori evacuati dalle zone dei combattimenti o emigrati volontariamente, con le famiglie, per sfuggire a un regime fieramente nazionalista (anzi, “nazista”).

Sarà dunque importante che il TPI pubblicizzi i dati, depurandoli da queste categorie e faccia la contabilità dei casi di vera e propria deportazione, di sottrazione alle famiglie, di assegnazione per l’adozione a coppie russe ignorando le richieste di restituzione presentate da genitori o parenti. Un processo, con l’audizione di numerosi testimoni, porterebbe alla luce l’estensione di questo fenomeno. Purtroppo è un processo che non si farà perché le regole fissate nel 1998 dallo Statuto di Roma, che istituisce la Corte, non consentono al TPI di procedere in contumacia.

Perché Putin venga imprigionato e quindi processato occorrerebbe che sfidasse l’ordine di arresto recandosi in uno dei Paesi rispettosi della autorità del Tribunale. Oppure che venga spodestato da una coalizione di oppositori ed estradato. Due scenari altamente ipotetici.

Per il secondo esiste un precedente, quello dell’ex-presidente serbo Slobodan Milosevic, consegnato all’Aja nel 2001 dallo stesso governo serbo di Zoran Djindjic a seguito di un ultimatum di Washington. Sappiamo, e Putin sa, come è andata: Milosevic aveva scatenato una guerra contro la Croazia e fomentato una guerra civile in Bosnia; aveva poi contribuito in modo determinante al successo dei negoziati di Dayton; non si aspettava perciò i 70 giorni di bombardamenti NATO del 1999 e l’amputazione della provincia ribelle del Kossovo (in violazione di una Risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU), e tanto meno l’incriminazione e il carcere. In quella prigione internazionale è poi morto nel 2006, per cui il processo, durato quattro anni, non si è mai concluso con una sentenza.

Sorprende perciò quanto dichiarato in proposito da chi conosce meglio di chiunque altro quella vicenda, la allora Procuratore Generale presso la Corte Penale per l’ex-Jugoslavia (ICTY), Carla del Ponte, in una intervista a “Repubblica”: “Milosevic ha aderito alle trattative di pace quando è partita l’inchiesta penale nei suoi confronti. Ora c’è da sperare che Putin possa guardare con maggiore interesse a una prospettiva di cessate il fuoco”.

Più logico sembrerebbe trarre dalla vicenda di Milosevic la conclusione che aderire o collaborare a un negoziato di pace non mette al riparo da incarcerazione e processo. Quindi non si vede quale incentivo a trattare possa venire, nel caso di Putin, dall’ordine di arresto. Senza contare che quell’atto formale esclude la sua presenza, e di altri suoi stretti collaboratori che venissero colpiti da analogo provvedimento, agli ipotetici negoziati. A meno che non si svolgano – cosa poco probabile – in un Paese amico della Russia e alieno dal collaborare con il TPI.

Se e quando si arriverà a una trattativa, difficilmente Kiev (salvo in caso di una piena sconfitta) rinuncerà a porre sul tavolo la questione dei crimini di guerra. Del tutto scontato è che la Russia (a meno di una caduta dell’attuale regime) vi si opponga fermamente sin dalla fase pre-negoziale, in cui va concordata la “agenda”, cioè la scelta dei temi da discutere o da escludere.

Sarebbe invece ragionevole inserire nella agenda, fra le questioni umanitarie, quella del rimpatrio dei deportati, o meglio, dei meccanismi per accertare la volontà degli interessati (non solo dei minori) di tornare, e per fornire assistenza per il reinserimento. È evidente che, più il tempo passa, più problematico sarà sciogliere i legami affettivi e di amicizia che, in molti casi, si saranno creati.

In sostanza, nel merito tecnico la decisione del Tribunale segue una logica legale/giudiziaria lineare, ma sul piano politico generale non potrà facilitare il lavoro della diplomazia internazionale.