international analysis and commentary

Il Libano che protesta contro tutte le sue élite

7,089

Il primo a reagire, al nono giorno di proteste lo scorso ottobre, quando ormai oltre un milione di libanesi era in strada, il 25% della popolazione, è stato Hassan Nasrallah – il leader di Hezbollah. Trincerandosi dietro la più tradizionale delle linee di difesa del Medio Oriente: la cospirazione straniera. Chi finanzia tutto questo, ha domandato? Il palco? La musica? Ma da Riad el-Solh, la piazza principale di Beirut, gli hanno subito ribattuto: E tu, allora? Che sei pagato dall’Iran? E a migliaia, uno a uno, hanno registrato un messaggio su Youtube, dicendo: pago io.

Fino a ieri, di Hezbollah qui si parlava a mezza voce. O non si parlava affatto. Ma se nel 2011 l’obiettivo era abbattere i Mubarak e i Gheddafi, questa seconda tornata di Primavera Araba mira all’intero sistema. Contro chiunque sia al potere. O abbia potere. “All of them means all of them“, si legge su muri e striscioni. Nessuno escluso.

I blocchi stradali, anche in forme creative, sono una delle caratteristiche delle proteste in Libano

 

Il giorno dopo, il 28 ottobre, il primo ministro Saad Hariri si è dimesso. Ma non è cambiato molto. E non solo perché l’ultima volta, le trattative per il nuovo governo sono durate 9 mesi. Il problema è che dietro le manifestazioni non c’è un movimento. Un nome, una struttura. I libanesi non sono organizzati. Né vogliono organizzarsi. Chiedi di chi è stata l’idea di venire in piazza, e ti dicono solo: Al-shaab – il popolo. Ed è intenzionale. Altrimenti, ti dicono, in un paese in cui tutto, per legge, è ripartito tra sunniti, sciiti e cristiani, per un totale di 18 confessioni e oltre cento partiti, e poi spartito tra famiglie, diventeremmo presto un gruppo tra i gruppi. E nient’altro.

Non significa che non abbiano idee e proposte. Anzi. Possono spiegarti per ore, e in dettaglio, le riforme necessarie, a partire da quella della costituzione, “che assegna il potere in base alla religione, invece che alla competenza: e un sistema così, ma come pensi che possa essere efficiente?”, dice Omar Nashabe, 44 anni, giurista e attivista di lungo corso – ma al fondo, hanno rivendicazioni essenziali. Mentre parliamo, sale sul palco un ragazzo. E dice: “Ho 28 anni, e solo 5 dollari. Cosa altro devo aggiungere?”.

Il Medio Oriente di oggi è molto diverso dal Medio Oriente del 2011. Dei presidenti di allora, resta solo Bashar al-Assad a Damasco. Ma oggi come allora, semplicemente, qui non funziona niente. In Libano persino gli aerei rischiano di precipitare. Perché a Beirut, incapaci di gestire lo smaltimento dei rifiuti, hanno pensato bene di riversarli vicino all’aeroporto: e ora, al decollo, stormi di gabbiani possono finire nei motori. L’acqua non è potabile. L’elettricità è razionata. E tra gli under 35, più di uno su tre è disoccupato. In un paese in cui l’età mediana è 30,5 anni. Mentre il governo rimedia ai continui blackout con vecchi generatori a gasolio, i ragazzi di Gemmayzeh, l’area in cui Beirut è bella e creativa come New York, e che fa da retrovia a Riad el-Solh, si sono laureati nei migliori politecnici europei: e ora progettano impianti eolici e solari in giro per il mondo.

Il presidente del Libano, Michel Aoun, ha 84 anni. Era a capo dell’esercito durante la guerra civile, dunque negli anni ‘80: viene da un altro pianeta. Riad Salameh, da 26 anni Governatore della Banca Centrale, ha imputato alle manifestazioni l’imminente crollo finanziario. La lira libanese ha già perso un quarto del suo valore rispetto al dollaro. “Ma uno così, stiamo ancora ad ascoltarlo?”, dice una ragazza. “Cita le rimesse degli emigrati come la nostra principale risorsa. E invece, siamo in piazza proprio perché vogliamo un lavoro. Una casa, una vita. Proprio perché non vogliamo più andare via”, dice. I libanesi all’estero oggi sono più di 8 milioni. Il doppio dei libanesi in Libano.

Tutto è iniziato con una tassa su Whatsapp. Sei dollari al mese. Non proprio il più urgente dei problemi, in un paese in cui il 48% del bilancio va a pagare gli interessi sul debito, e il debito è al 155% del PIL, il terzo più alto al mondo: un paese che non affonda solo perché con oltre 2 milioni di rifugiati, tra siriani e palestinesi, non può affondare, e ogni volta riceve aiuti e prestiti all’ultimo minuto. “Ma appunto. A fronte di tutto questo, a fronte di una povertà al 25%, il governo cosa fa? Se lo chiede Nizar Hassan, 26 anni, uno dei conduttori radiofonici più seguiti. “Una tassa su Whatsapp“.

Per le agenzie di rating, il Libano è C. E sotto la C, non c’è niente. C’è la bancarotta. Quando parliamo di Medio Oriente, parliamo di religione. Di Islam. Ma qui si parla soprattutto di economia. Il Libano, in particolare, non ha petrolio, né altre risorse. Non produce niente. E quindi, a parte le rimesse degli emigrati, si basa sulle sue banche. Per questo è definito la Svizzera del Medio Oriente. Non per la qualità della vita, ma perché attrae i dollari necessari alle importazioni con il segreto bancario: e tassi di interesse altissimi, intorno al 7%. Chi paga questi tassi così convenienti? La Banca Centrale, ma solo perché le banche le versano i depositi dei propri clienti, finanziandoli attraverso i depositi dei nuovi clienti: un tipico schema Ponzi. Che prima o poi, salta, è noto. Non è una strategia molto razionale. “O magari sì. Dipende dai punti di vista”, dice Nizar Hassan. “Il 43% dei depositi è di politici”.

Nel 2011 era più semplice. Perché, appunto: non si tratta più di cambiare solo un presidente. E non è una coincidenza che in tutte le piazze, da Algeri a Baghdad, fino a Hong Kong, risuoni “El Pueblo Unido” degli Inti Illimani – che vengono dal Cile, laboratorio del neoliberalismo, e altro paese oggi in rivolta. Perché il contesto, e la miccia iniziale, sono diversi, e sono diverse le rivendicazioni immediate, ma al fondo, il bersaglio è ovunque lo stesso: è la disuguaglianza. In Libano, 129mo su 141 paesi per coefficiente di Gini che misura la diseguaglianza nella distribuzione del reddito, il 10% più ricco possiede il 57% della ricchezza. E l’1% più ricco, 37mila libanesi, da solo controlla il 23% della ricchezza, quanto il 50 percento più povero. Quanto 1,5 milioni di libanesi.

L’economia è controllata da una ventina di famiglie. Tra cui proprio quella dell’ex Primo Ministro Saad Hariri. Che ha un patrimonio personale di 1,3 miliardi di dollari: e mentre sospendeva lo stipendio ai giornalisti di Futura, la televisione di sua proprietà, scusandosi per il momento di crisi, regalava 16 milioni di dollari all’amante sudafricana.

Saad Hariri, capo del governo dal dicembre 2016 a fine 2019

 

Quando parliamo di Medio Oriente, parliamo di un mondo che ci sembra Altro. Vicino solo sulle mappe. Ma diseguaglianze e iniquità simili colpiscono anche l’Occidente, a cominciare dall’Italia.

Naturalmente, la domanda è: E Hezbollah? Sono in molti, in Israele e non solo, a sperare che finisca travolta. “Ma in un certo senso, essere contestati significa essere forti”, dice Kassem Aina, che ha 73 anni, e con la sua Beit Atfal Assomoud, la principale organizzazione dei rifugiati palestinesi, è un pezzo di storia del Libano. “Hezbollah sconta il suo radicamento. E quindi, le aspettative. Perché quello che per voi non è che un movimento di resistenza, o più spesso, un gruppo di terroristi e basta, per noi è un partito al governo ormai da anni”, dice. “E tra l’altro, Hezbollah non è accusata di clientelismo e corruzione. Ma di complicità in un sistema di clientelismo e corruzione che aveva promesso di cambiare”, dice. E invece, si è impegnata più in Siria che nelle periferie del Libano. Con un’identità più sciita che libanese. “Ma se è nel mirino”, dice Kassem Aina, “è proprio perché ora è parte del paese a pieno titolo. Con piena legittimità”.

Riad el-Solh è occupata dal 17 ottobre. Senza altra bandiera che quella nazionale. Che molti hanno al collo con un badge. Come a dire: siamo libanesi, prima che tutto il resto. “Perché l’interesse pubblico non è una somma di interessi particolari”, dice un ragazzo. “Non c’è Libano possibile se non hai, prima di tutto, i libanesi”. E in questo, dice, abbiamo già vinto. “Ora non esistono più solo i sunniti e gli sciiti. I musulmani e i cristiani. Ora esistiamo anche noi”.