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Il grande progetto di modernizzazione della Turchia, in stile Erdoğan

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Nel mese di giugno, Recep Tayyp Erdoğan ha ottenuto una nuova, doppia vittoria simultanea. Ha conquistato la riconferma alla presidenza della Turchia col 52,6% dei voti, senza passare per il ballottaggio: e sarà quindi il primo a godere dei poteri rinforzati che lo rendono anche capo del governo. Il Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP) di cui è leader incontrastato si è inoltre confermato prima forza; in alleanza con il Partito del movimento nazionalista (MHP) ha complessivamente superato il 50% dei voti, garantendo perciò all’AKP, seppur non più da solo come nella scorsa legislatura, il doppio controllo di esecutivo e legislativo.

Erdoğan ha vinto di nuovo in virtù dei successi consolidati in campo economico e di tassi di crescita invidiabili (il Pil è aumentato del 7,4% sia nel 2017, sia nel primo trimestre del 2018)? Oppure ha vinto nonostante gli squilibri sempre più marcati del quadro macroeconomico – lira turca in inarrestabile svalutazione, inflazione stabilmente in doppia cifra, deficit delle partite correnti in aumento, tassi d’interesse ormai al 17,75% – che fanno temere un imminente hard landing? Del resto, molti analisti hanno interpretato la decisione del presidente di anticipare le doppie elezioni, inizialmente previste per il 3 novembre del 2019, proprio come una contromisura preventiva: scegliere di votare subito ha evitato che, in caso di peggioramento della situazione economica, gli elettori se la prendessero col presidente.

Il nuovo aeroporto di Smirne

 

In ogni caso, in campagna elettorale è stata proprio l’economia – insieme all’istituzionalizzazione del sistema presidenziale – il tema di maggior rilevanza, quello sempre presente nei comizi di tutti i partiti. Da una parte, il candidato dell’AKP ha evidenziato quotidianamente gli aspetti a suo avviso largamente positivi – grandi progetti infrastrutturali realizzati, servizi pubblici efficienti e dalla diffusione capillare, crescita del potere di acquisto – dei 16 anni passati alla guida del Paese. Dall’altra, i suoi avversari hanno denunciato esempi di cattiva gestione delle finanze pubbliche – sprechi, corruzione – e gli effetti più immediatamente percepibili della crisi annunciata; persino i costi di patate e cipolle (saliti dell’80% e del 150% nelle ultime settimane) sono diventati oggetto di dibattiti e polemiche infinite.

Erdoğan ha però mostrato la sua consueta abilità nel volgere a proprio vantaggio le difficoltà più marcate e gli attacchi meglio assestati: e ha sfruttato la sensibilità dei turchi per il complottismo presentandosi come vittima di potenze straniere e lobby interne, impegnate per l’appunto a manipolare tassi di cambio e prezzi per rendere più difficile la sua rielezione. Ha inoltre annunciato profonde riforme per ritrovare stabilità e per rilanciare il processo di sviluppo, ha ancora una volta puntato sulla grandeur ingegneristica e tecnologica inaugurando di persona a pochi giorni dalle elezioni – con l’aereo presidenziale – la pista di atterraggio del nuovo aeroporto di Istanbul (aprirà al traffico il prossimo 29 ottobre, nell’anniversario della Repubblica).

L’efficace propaganda su cifre e megaprogetti è però solo uno degli aspetti che spiegano il progressivo consolidamento del potere parte del presidente turco – elezione dopo elezione, referendum dopo referendum – attraverso il boom economico. Del resto, la prima affermazione dell’AKP sulla scena politica turca nel 2002 è avvenuta dopo il collasso dell’economia provocato dai partiti dell’establishment: ed è riuscito a ottenere il 34,2% dei voti e la maggioranza in Parlamento – un dato allora storico per un partito d’ispirazione islamica – proprio con l’impegno di superare la crisi imponendo la disciplina fiscale e di attivare un nuovo cammino di virtuoso sviluppo.

La chiave di volta di questo progetto insieme economico e politico – dopo aver messo sotto controllo deficit, debito e inflazione – è stata la trasformazione del tessuto produttivo, sempre più imperniato non sui grandi gruppi industriali sostenuti dall’espansione del mercato interno ma sulle piccole e medie imprese dell’Anatolia orientate all’esportazione. Per renderle sufficientemente competitive, è stato necessario un grandioso piano infrastrutturale – il modello di finanziamento prevalente, la partnership pubblico-privato – per innervare tutta la penisola Anatolica di autostrade, linee ferroviarie ad alta velocità sui corridoi eurasiatici (parte del progetto della Nuova via della Seta), ponti e tunnel per ridurre i tempi di percorrenza, porti commerciali, aeroporti.

L’applicazione di questo modello di sviluppo ha avuto come conseguenza diretta la creazione di una nuova classe media, conservatrice, elettoralmente fedele all’AKP e al contempo proiettata verso la modernità,(sono state aperte università un po’ dappertutto), che ha favorito la crescita economica alimentando i consumi interni. Agli estremi opposti del sistema socio-economico hanno tratto poi benefici sia nuovi gruppi industriali legati al governo e alle sue commesse (difesa, costruzioni), sia le classi più modeste che continuano ad apprezzare le iniziative di welfare soprattutto in ambito sanitario e di edilizia pubblica.

Nel progetto politico di Erdoğan non c’è invece più posto per le vecchie “oligarchie burocratiche” che ancora oggi in parte controllano ministeri e apparati di Stato, considerate capaci di rallentare o addirittura sabotare le proposte di trasformazione. La riforma presidenzialista ha come obiettivo primario e dichiarato – dal presidente in persona, pochi giorni prima delle elezioni – proprio il ripensamento completo dell’amministrazione pubblica, soprattutto in ambito economico.

Tre grandi ministeri economici – Tesoro e Finanze, Commercio, Industria e Tecnologie – verranno creati per occuparsi dei tre settori trainanti dell’economia turca: quello finanziario, orientato ad attrarre investimenti esteri (soprattutto diretti); quello della produzione industriale, che dovrà essere basata sempre più sulla ricerca scientifica e tecnologica e quindi inglobare alto valore aggiunto; quello del commercio, amplificando ulteriormente i canali di esportazione. I ministeri delle Infrastrutture e Trasporti e dell’Agricoltura e Foreste avranno come rispettivi obiettivi fondamentali il completamento dei progetti avviati, puntando alla decisiva e definitiva modernizzazione del settore.

La stessa Banca centrale potrebbe essere interessata da una riforma per assegnarle non più solo compiti di difesa della stabilità dei prezzi, ma anche di stimolo alla crescita (sul modello della FED americana). Mentre a Istanbul è invece già in costruzione un Centro finanziario internazionale che accoglierà le sedi di tutte le istituzioni del settore oltre a banche e altri istituti privati e potrà facilitare l’arrivo di capitali esteri. Comitati consultivi, agenzie e direttorati, in cui verranno coinvolte figure del mondo imprenditoriale e dell’università così da aggirare le gerarchie burocratiche, verranno posti sotto il diretto controllo del presidente – il processo decisionale verrà quindi centralizzato – per coadiuvarlo nell’elaborazione e nell’applicazione di strategie di lungo periodo.

Tuttavia, il buon esito di questa riorganizzazione delle istituzioni e del modello di sviluppo dipenderà da buoni rapporti con l’Unione europea, primo partner commerciale per distacco e origine di una parte cospicua dei flussi finanziari verso la Turchia. E’ da escludere che Erdoğan voglia rinunciarvi per puntare a un esclusivo asse eurasiatico con Russia e Cina, pur essenziali nei progetti di affrancamento dalla dipendenza energetica (pipeline, centrali nucleari) e di trasformazione in hub logistico sulla Nuova via della Seta.

La preservazione dell’orientamento europeo, al di là del processo di adesione che sembra inesorabilmente bloccato, dipende però a sua volta da altre riforme: quelle da più parti e più volte reclamate che riguardano il sistema giudiziario, lo stato di diritto e le libertà individuali, avviate ma poi sospese dopo gli attentati terroristici e il golpe che hanno colpito il paese nel 2015 e 2016. Ed è in questa tensione tra obiettivi e priorità che emergono tutti i quesiti sul futuro del Paese e della sua attuale leadership.