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Il golpe fallito e le scelte delicate del governo turco

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“Una macchia nera per la democrazia turca”. Ma anche “la giornata della democrazia”. Per il primo ministro turco Binali Yıldırım il 15 luglio è entrato di diritto nella storia del suo paese: una nottata tra angoscia e giubilo, in cui il golpe ordito da fazioni deviate delle forze armate – in buona parte legate all’imam Fethullah Gülen, che vive in esilio negli USA – è stato rapidamente sconfitto. Questo esito è stato raggiunto anche col sostegno della popolazione mobilitata dagli appelli del presidente Recep Tayyip Erdoğan, in vacanza sulla costa egea e poi tornato precipitosamente a Istanbul.

Il tentativo di colpo di stato ha colto un po’ tutti di sorpresa, con il paese alla ricerca di normalità dopo l’attentato all’aeroporto di Istanbul del 28 giugno e nove giorni di vacanza per le feste dopo la fine del ramadan. Dopotutto le condizioni non sembravano propizie: nonostante la doppia minaccia dell’Isis e del Pkk curdo, l’amministrazione statale è comunque forte e capace di dare risposte credibili; l’economia continua a godere di ottima salute, con un tasso di crescita del pil attorno al 4%; né c’era malcontento generalizzato contro il governo. Almeno è questo il quadro presentato sistematicamente dai media vicini al governo, ed è comunque condiviso da una maggioranza della popolazione turca.

Le prime notizie nella tarda serata di venerdì facevano riferimento a scontri a fuoco ad Ankara e a ponti sul Bosforo bloccati: di nuovo terrorismo? Poi voci incontrollate e incredulo stupore: darbe, la parola turca che indica il colpo di stato, ha cominciato a circolare insistentemente sui social network. Fino al proclama fatto leggere in diretta a una presentatrice della tv di stato in cui si annunciava la presa del potere, poco dopo la mezzanotte. Si sono presentati come “Consiglio per la pace nel Paese”, hanno promesso democrazia e laicità; in effetti la svolta improvvisa ha riportato molti ai tempi bui del 12 settembre 1980 (i militari imposero allora la costituzione autoritaria ancora oggi in vigore). I golpisti hanno assaltato basi militari, rapito con un blitz in elicottero alti ufficiali che partecipavano a un matrimonio a Istanbul, bombardato sia il parlamento sia l’hotel in cui alloggiava Erdoğan (il presidente era però già partito).

Perché il tentativo di golpe è stato lanciato, e perché è fallito rovinosamente nel giro di poche ore? L’ipotesi più accreditata e logica è quella di un colpo di coda dei gülenisti, un’azione disperata e quasi suicida. Il 1° agosto è infatti in programma una sessione del Consiglio supremo militare (Yaş, nell’acronimo turco) che avrebbe deciso l’allontanamento dai ranghi di molti ufficiali per l’appunto legati agli ambienti eversivi. Costoro avrebbero in sostanza organizzato un golpe preventivo, prima di perdere comunque le stellette. Questo spiegherebbe anche perché il colpo di Stato è stato pianificato in modo molto impreciso e poco coordinato: alcune operazioni sono state eseguite brillantemente, ma non c’è mai stata la reale possibilità di detenere il presidente, il primo ministro, membri del governo. Un’ulteriore spiegazione – senza però riscontri concreti, al momento – è che una soffiata in extremis abbia indotto i golpisti ad attivarsi prima del previsto, in serata invece che nel cuore della notte.

Il darbe del 15 luglio è però fallito soprattutto per la mancanza di sostegno. In primo luogo, a compierlo non sono state le Forze armate nel loro complesso ma solamente un gruppuscolo al loro interno, ristretto a poche migliaia di persone. I vertici hanno immediatamente e pubblicamente preso posizione contro, e hanno mobilitato esercito e gendarmeria – anche polizia – per contrastare i golpisti: in pochissimo tempo, ad esempio, l’aeroporto Atatürk è stato sottratto al controllo dei putschisti, ed è stata quella la prima e già decisiva svolta che ha consentito a Erdoğan di tornare da trionfatore salutato da decine di migliaia di persone. Lo stesso Capo di stato maggiore interforze, il generale Hulusi Akar, è stato rapito e trasportato nella base dell’aviazione che ha fatto da quartier generale (è stato liberato solo nella mattinata di sabato).

Non c’è però da stupirsi di questa diffusa posizione anti-golpe. Le riforme volute dall’Akp hanno infatti restituito ai militari la loro funzione di baluardo contro minacce soprattutto esterne, scoraggiandoli da ingerenze politiche: un ruolo pienamente accettato e interiorizzato. Proprio coi militari, Erdoğan ha anche saputo tessere una stretta alleanza, in funzione anti-gülenista: ampi settori delle Forze armate sono stati bersaglio di processi considerati pilotati dai gülenisti, e ora il presidente li ha recuperati alla sua causa contro il nemico comune (lo stesso, per l’appunto, che ha scatenato il golpe).

In secondo luogo, il sollevamento del 15 luglio è stato fermamente rigettato da tutte le forze politiche di opposizione. Il Parlamento è rimasto in seduta – erano già riuniti, come da calendario dei lavori – durante il colpo di Stato, anche mentre la sua storica sede veniva colpita dagli elicotteri in mano ai ribelli. I leader del partito kemalista Chp, del partito nazionalista Mhp e del partito filocurdo e della sinistra radicale Hdp hanno espresso convinto sostegno per le istituzioni democratiche. Una seduta speciale del Parlamento, sabato 16 luglio, ha prodotto una dichiarazione congiunta di tutti e quattro i partiti, insieme alla maggioranza dell’Akp di Yıldırım ed Erdoğan: una vera rarità, in un contesto politico irriducibilmente diviso.

In terzo luogo, sono stati gli stessi cittadini turchi a dire di no a scorciatoie antidemocratiche. Il presidente, grazie a un estemporaneo collegamento via FaceTime rilanciato dalla Cnn turca, con un invito a scendere in piazza e fare “tutto ciò che è possibile e necessario” – gli hanno fatto eco persino i muezzin delle moschee – che ha attivato la rete dei suoi sostenitori: prima lo hanno accolto giubilanti in aeroporto, poi sono andati ad affrontare i carri armati inducendo i golpisti alla resa con la forza dei numeri. Ma al di là di qualche nostalgico atatürkista pro insorti, a soffocare il golpe sono stati cittadini turchi di ogni estrazione politica e sociale: persino alcuni giovani animatori delle rivolte antigovernative di piazza Taksim (dell’estate 2013). La mobilitazione popolare è poi proseguita sabato sera, quando i cittadini turchi hanno festosamente occupato “le piazze del popolo” in tutte le maggiori città, armati di bandiere nazionali.

Il bilancio è grave: 265 morti e 1440 feriti, tra cui molti civili. La risposta è già stata severissima, a poche ore dagli eventi: 2839 militari arrestati, tra cui alcuni alti ufficiali come Akın Öztürk, ex comandante dell’aviazione ritenuto uno dei principali istigatori; 2745 giudici e procuratori rimossi dall’equivalente turco del Csm perché ritenuti legati al sistema di potere di Gülen, più un centinaio di altri magistrati – compresi due giudici costituzionali – arrestati per lo stesso motivo. Hanno poi destato grande scalpore – domenica – la detenzione del comandante della base area di Incirlik Bekir Ercan Van (utilizzata anche dalla Nato per le missioni contro l’Isis) e dell’aiuto di campo presidenziale Ali Yazıcı, ovviamente informato dei dettagli dell’agenda di Erdoğan. Sono solo le prime misure adottate, ne sono state già annunciate altre per eliminare completamente l’influenza dell’imam che risiede in Pennsylvania da magistratura, forze armate, polizia.

In ogni caso il destino di Fethullah Gülen, di cui  Erdoğan ha chiesto a gran voce l’estradizione, continua a dividere Turchia e USA. Ankara non si fida più di Washington: le posizioni altamente divergenti sulla Siria – l’America ignora le richieste turche di interventi congiunti contro Assad e per l’istituzione di una “zona libera” e d’interdizione al volo al confine turco-siriano – hanno già minato i rapporti tra gli alleati. Intanto, vasti settori mediatici e politici – non immuni da “complottismo” e anti-americanismo – ritengono plausibile un coinvolgimento americano nel golpe. Il segretario di Stato John Kerry ha respinto polemicamente le accuse, e si è detto possibilista sull’estradizione di Gülen qualora fossero fornite sufficienti prove. Per una decisione risolutiva sarà però probabilmente necessario il parere del successore di Barack Obama.