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Il Giappone in cerca di nuove strade dopo l’era Obama

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Tutto il Giappone ha fatto il tifo per Hillary Clinton: la gente comune, il mondo degli affari, il primo ministro Abe Shinzo e l’opposizione. La vittoria di Donald Trump obbliga ora Abe a rimodellare l’intero quadro della sua politica con riferimento sia alle prospettive economiche sia alla sicurezza del Paese. Questa politica infatti aveva preso corpo, pur muovendo da pressioni e motivazioni generatesi all’interno della società giapponese, proprio appoggiandosi sulla sponda rappresentata dall’Amministrazione Obama.

La politica estera e di difesa che ha portato alle nuove leggi sulla sicurezza (approvate nel settembre 2015) sottintendeva quella evoluzione dell’alleanza tra i due Paesi desiderata e quasi suggerita dalla Casa Bianca, desiderosa non meno della destra giapponese di trasformare lo storico “pacifismo” nipponico nel più dinamico sforzo per “la costruzione della pace” perfettamente inseribile nel rebalance implicito nella strategia del Pivot to Asia. Inoltre la fermezza di Abe nei confronti delle pretese territoriali cinesi richiedeva la copertura americana, ovvero l’assicurazione, espressa prima dalla Clinton e poi da Obama, che l’articolo 5 del Trattato di sicurezza pone sotto l’ombrello americano anche i territori “amministrati” dal Giappone, come le isole Senkaku.

Infine l’Abenomics, dopo qualche momento di esitazione dovuto alle pressioni dei conservatori, si è identificata con quella modernizzazione del sistema che era indispensabile corollario alla adesione alla Trans Pacific Partnership (TPP), divenuto in questo modo non solo il motore economico del Pivot to Asia ma anche la garanzia della strategia di sviluppo nipponica. Questa d’altra parte tiene conto anche della fede ambientalista della Amministrazione americana uscente. La riduzione delle emissioni di gas serra – divenuta un impegno globale con gli accordi di Parigi – e tutto quello che essa significa in termini di affari basati sulle energie alternative appariva una grande opportunità per il Giappone.

Trump rompe il giocattolo e infrange le speranze. Considera l’ecologia un falso problema – e a questo punto a poco serve che il Parlamento giapponese proprio l’8 novembre abbia ratificato il trattato di Parigi. Il Presidente-eletto si dichiara inoltre favorevole alla non-proliferazione nucleare ma è pronto a rinunciarvi se questa costa troppo al contribuente, col risultato che l’ombrello americano per i giapponesi cessa di essere una garanzia di sicurezza e che si riaffaccia l’ipotesi di un Giappone dotato di deterrente nucleare. L’idea forse non dispiace a certe frange della destra (in Giappone come in Corea del Sud alla quale the Donald ha rivolto lo stesso monito). Ma Abe non ha potuto non controbattere rifacendosi ai “tre principi” antinucleari giapponesi: no a produzione, possesso e introduzione di ordigni atomici sul proprio territorio.

L’incontro del 17 novembre con Trump a New York, lungo la via che lo ha portato in Perù per il vertice APEC (Asia Pacific Economic Cooperation), è stato definito franco e aperto, termini che sottintendono divergenze di opinioni, ma il premier nipponico ha buone frecce al suo arco e le userà nei prossimi mesi. Proprio in coincidenza con le elezioni americane si sono svolte le prime manovre congiunte Usa-Giappone sotto l’egida delle nuove leggi sulla sicurezza, che consentono alle Forze di autodifesa nipponiche di intervenire in aiuto alle truppe americane. Un chiaro segno per dire questo: sono rintuzzabili le critiche di Trump ad un Giappone che si affida agli USA e non dà niente in cambio in termini militari.

Né, scavalcata la propaganda spicciola, sarà difficile convincere l’Amministrazione entrante che la Corea del Nord non è un problema che riguarda solo Seul e Tokyo. Il programma nucleare di Pyongyang, unito ai sempre più frequenti test su missili balistici, è un pericolo anche per gli USA. Se Trump ha esplicitamente puntato il dito contro l’Iran e contro gli accordi raggiunti con Teheran da Obama, a maggior ragione deve monitorare e cercare di tenere a freno Pyongyang. Insomma se come tutto lascia pensare il ripiegamento isolazionista si tradurrà in un “interventismo selettivo”, questo non potrà non avere come oggetto la crisi coreana.

Diversa, ma collegata, è la questione del Mar Cinese meridionale. Su questo tema un parziale disimpegno americano potrebbe essere controbilanciato da un ulteriore rafforzamento della presenza giapponese, diplomatica, finanziaria e anche, seppure indirettamente, militare. Sarebbe peraltro un’ennesima conferma di come l’alleanza USA-Giappone sia utile per Washington e di come stia evolvendo nella direzione auspicata alla Casa Bianca. D’altra parte è impensabile che Trump abbandoni l’area ASEAN a se stessa, non fosse che per dare corpo al suo sbandierato impegno contro il terrorismo islamico che proprio in questo settore geografico sta guadagnando terreno. Anche sui costi delle basi americane, che il Presidente-eletto giudica eccessivi e a causa dei quali minaccia un ritiro, Abe dispone di buoni argomenti. Il contributo finanziario giapponese per la presenza delle basi è infatti già molto alto. È stato fissato con l’accordo del dicembre 2015 in 9,1 miliardi di dollari per il quinquennio 2016/20. Copre il 74% dei costi totali, mentre la Germania ha a suo carico solo il 32% e la Corea del Sud il 40%.

Molto difficile invece è trovare punti di contatto con Trump quando questi afferma che preferisce accordi commerciali bilaterali rispetto a quelli multilaterali, e definisce il TPP un disastro, promuovendolo a simbolo del suo rifiuto di “sacrificare l’economia americana sull’altare della politica estera”.

Sotto la spinta di Abe, il 10 novembre la Camera bassa giapponese ha approvato una legge che autorizza la ratifica del TPP. La speranza era creare un fatto compiuto che desse a Obama una carta supplementare per spingere il Congresso americano, nella lame duck session fino al 20 gennaio, a ratificare il trattato. Ora che tale ipotesi è definitivamente caduta, si tratta di convincere Trump che ribaltare la posizione americana sul TPP comporterà una perdita di fiducia di tutta l’Asia nei confronti degli USA. Inoltre getterà molti Paesi tra le braccia di Pechino, che ha già riscosso un notevole successo in chiave anti-americana con la Banca Asiatica per le Infrastrutture e gli Investimenti, e sta promuovendo accordi simmetrici seppure alternativi al TPP come la Regional Comprehensive Economic Partnership. Sono accordi ai quali anche il Giappone, finora riluttante in nome proprio del contenimento della Cina, finirebbe con l’aderire. Per di più attraverso di essi Pechino imporrà i suoi standard, proprio come attraverso il TPP gli USA – e il Giappone in nome di una comune visione neo liberale – avrebbero fatto valere i loro.

A questo punto le ipotesi sul futuro del TPP sono varie e ad Abe non resta che scommettere sulla “meno peggiore”. La più drastica prevede che Trump dichiari morto il TPP e punti tutto, davvero, su intese bilaterali. In alternativa il Presidente-eletto potrebbe chiedere di rinegoziare alcune sezioni del trattato. La terza, quella auspicata a Tokyo, è che la lobby repubblicana filo-TPP, su cui fino a ieri contava anche Obama, finisca col convincere the Donald a congelare la questione per un paio d’anni, tempo necessario per fare sbollire i retorici furori protezionistici. Nell’attesa di capire come andranno le cose Abe può solo raddoppiare gli sforzi per raggiungere un accordo di libero scambio con l’Unione Europea (lo si potrebbe firmare entro l’anno). Inoltre si riconsiderano intese che erano state sacrificate sull’altare del TPP, prima tra tutte l’area di libero scambio  tripartita con Cina e Corea del Sud.

Quanto all’accordo commerciale bilaterale che potrebbe prendere il posto del TPP, si tratta pur sempre di scardinare l’oltranzismo protezionista di Trump. Altrimenti rischia di saltare il più importante e costoso progetto infrastrutturale giapponese che si appoggiava proprio sulla sponda americana: la linea ferroviaria ad alta velocità per il treno a levitazione magnetica, da costruire sia in Giappone sia negli Stati Uniti per unire la East Coast alla West Coast americane. Inoltre l’industria dell’auto, che ha bisogno del mercato americano e a tale scopo ha sfruttato anche il NAFTA costruendo impianti in Messico, avrà seri problemi. Lo stesso accadrà al nucleare civile, altro settore export oriented: pende su di esso infatti la scadenza (luglio 2018) dell’accordo bilaterale attraverso il quale gli USA forniscono plutonio al Giappone.

Non solo nuvole comunque. Su un punto almeno Trump è meglio della Clinton agli occhi di Abe. Cade la pregiudiziale antirussa rafforzata da quella crisi ucraina che ha portato il Giappone ad approvare controvoglia sanzioni contro Mosca. Se the Donald è comprensivo verso Putin, potrà esserlo anche il Giappone. Sarà più facile trovare un compromesso che porti al tanto atteso Trattato di pace con la Russia. È uno dei cardini della politica del governo nipponico allo scopo di lanciare una cooperazione economica che si annuncia ricchissima di prospettive. Inoltre, strategicamente, evita di rendere indispensabile per Mosca il soffocante abbraccio di Pechino. Un obiettivo che Trump, per quanto possa essere isolazionista, non può non condividere.