Il garbuglio del divorzio britannico
Il 2018 è stato, per la politica britannica, un anno estenuante: dominato, anzi consumato, dalla Brexit, si è chiuso senza alcuna certezza su ciò che aspetta il Regno Unito. Nessuna ipotesi è esclusa, dal “no deal” (l’uscita dall’Unione Europea senza accordi) a un secondo referendum – ipotesi che nelle ultime settimane ha preso piede e che nelle speranze di qualcuno potrebbe ribaltare l’intero processo. Ci sarebbe l’accordo siglato da Theresa May con Bruxelles a novembre, ma è talmente inviso al parlamento che la premier ha dovuto rimandare il voto di Westminster l’11 dicembre, tanto era certa di perderlo. In assenza di una maggioranza parlamentare su una qualunque delle ipotesi, ognuno procede in ordine sparso. Non è sicura nemmeno la data di uscita, stabilita al 29 Marzo 2019: anzi, nel pantano in cui si è cacciato il governo, un’estensione dell’Articolo 50 – cioè dell’intera procedura di divorzio fissata dai Trattati UE – appare l’ipotesi più probabile.
Nel 2018, il Regno Unito ha dovuto fare i conti con la realtà: le promesse dei Brexiteers e le velleitarie aspirazioni di un Paese fiero del suo passato imperiale si sono scontrate con il muro della UE, trasparente, inflessibile e unita nelle sue posizioni negoziali. “Il momento in cui votiamo per uscire abbiamo tutte le carte in mano”, aveva detto Michael Gove, uno dei volti della campagna Leave; il suo compagno di partito e di barricata Lima Fox prevedeva che il negoziato con Bruxelles sarebbe stato “il più facile nella storia del mondo”.
Nel 2018, infine, la politica britannica ha definitivamente abbandonato le buone maniere: una tendenza cominciata con la campagna referendaria del 2016 ma confermata e anzi rafforzata nei due anni e mezzo successivi. I rivali politici sono diventati “traditori”; i giudici che emanano sentenze sgradite “nemici del popolo”; alcuni deputati hanno ricevuto minacce di morte per aver espresso opinioni sulla Brexit. Il Regno Unito patria del “common sense” (la ragionevolezza, ma anche la moderazione) ha lasciato il posto al “Regno Disunito” degli eccessi. La Brexit ha sparigliato tutto, anche le cortesie istituzionali che, in un Paese che ha una costituzione non scritta, ne garantiscono il corretto funzionamento. A dicembre, il governo è stato censurato da un voto parlamentare: i deputati lo hanno ritenuto colpevole di oltraggio al parlamento per aver rifiutato di pubblicare integralmente il parere legale sull’accordo con Bruxelles. Non era mai successo prima. “Le norme della politica britannica hanno ceduto, proprio quando ce n’è più bisogno”, ha scritto The Economist.
“Brexit Fatigue”
Cresce intanto la stanchezza su un tema che viene discusso ad nauseam sin nei dettagli più tecnici e intricati: nessuno sa davvero cosa sarebbe in concreto il “backstop” per l’Irlanda del Nord ma tutti sono stanchi di sentirne parlare. Una catena di pub, la Green King, ha addirittura attribuito l’aumento dei profitti alla “Brexit fatigue”: si va a bere una pinta per non sentire più parlare di Brexit. Più difficile capire come la stanchezza possa influire sull’esito finale. Stando ai sondaggi, cresce il fronte che si è pentito o vorrebbe restare. Secondo una rilevazione dell’istituto YouGov, pubblicata sul Times a dicembre, l’11% di quanti hanno votato Leave pensano che sia stato un errore, una percentuale cresciuta dall’8% del mese precedente. Altre consultazioni hanno prodotto risultati simili. Certo, i sondaggi hanno fallito clamorosamente prima del voto, e la Brexit resta un tema “identitario”, distintivo per molti. Ma la stanchezza potrebbe, se non ribaltare il processo, quanto meno convincere molti ad accettare soluzioni di compromesso.
Theresa May e Jeremy Corbyn
Con la perseveranza che ormai è il suo marchio di fabbrica, la premier è sopravvissuta contro tutto e contro tutti, ma per quanto ancora potrà riuscirci? Ha sì sconfitto un voto di sfiducia da parte dell’ala euroscettica del partito, e non ne può subire un altro per 12 mesi. Ma ne è uscita indebolita, con un terzo dei deputati del suo stesso partito che si è schierato contro di lei, e ha dovuto promettere che non sarà lei a guidare i Tory alle prossime elezioni. Nel 2018 ha cercato di aggiustare il tiro dopo aver commesso errori catastrofici all’inizio del mandato (aver indetto elezioni anticipate in cui ha perso la maggioranza assoluta; aver sposato posizioni dure sulla Brexit per poi rinnegarle; aver perso credibilità con promesse non mantenute; aver fatto scattare l’Articolo 50, e con esso il conto alla rovescia di due anni di negoziati, senza avere una posizione chiara).
Theresa May è ora attesa alla prova decisiva del voto di Westminster sull’accordo, previsto per la prossima settimana. La sua strategia è di mettere il parlamento alle strette: a pochi mesi dalla data di uscita, il suo accordo, dice, è l’unico possibile; bocciarlo vorrebbe dire andare incontro ad un’uscita a precipizio o fermare la Brexit. E agli elettori ricorda che, messa da parte la Brexit, il governo si potrà finalmente dedicare a temi come la sanità o la crisi degli alloggi. Comunque finisca la partita sul suo accordo, la premier ha una fiducia a tempo. E’ una “morta che cammina”, aveva detto George Osborne all’indomani delle disastrose elezioni del 2017. Ha camminato a lungo, più di quanto molti si attendevano, ma il percorso potrebbe terminare quest’anno.
Al contrario di Theresa May, Jeremy Corbyn è saldamente al comando del suo partito. Ma le buone notizie finiscono qui per il leader dei laburisti. Corbyn non solo è rimasto invischiato nelle accuse di anti-semitismo nel Labour, caso gestito goffamente e con apparente fastidio. Ma è stato incapace di capitalizzare sulla guerra civile che agita i Tory e sui loro errori e tentennamenti sulla Brexit. Con la May al tappeto, ha sempre mancato l’affondo: i sondaggi certificano che i laburisti sono al massimo delle intenzioni di voto, senza riuscire però a erodere consenso ai conservatori.
Il Labour non ha trovato una strategia chiara, diviso tra quanti vogliono un secondo referendum e quanti temono di scontentare le “constituencies” che hanno votato Leave. Corbyn è rimasto a guardare l’autodistruzione dei conservatori, strategia legittima, ma deludente per chi in questo momento storico aspira a guidare il Paese. Chiede elezioni anticipate e sostiene che, una volta a Downing Street, porterà avanti la Brexit negoziando un accordo migliore dei conservatori sulla base di un’unione doganale con il blocco. Un piano che renderebbe necessaria con ogni probabilità un’estensione dell’Articolo 50, ammesso che Bruxelles voglia riaprire il negoziato. E che lascia delusi molti deputati e iscritti del partito. Le divisioni del Labour sulla Brexit, irrilevanti fintanto che il partito è all’opposizione, uscirebbero allo scoperto con Corbyn a Downing Street.
UK 2019
Finora il parlamento si è dimostrato contrario all’accordo della May. In vista del nuovo voto, la premier spera che eventuali ritocchi dell’ultima ora con l’UE convincano abbastanza deputati a cambiare idea. Se riesce a persuadere il DUP, il piccolo partito unionista irlandese che offre un decisivo sostegno esterno al suo governo, allora potrebbe portarsi dietro un pezzo di partito conservatore. Se, come resta più probabile, il parlamento boccerà l’accordo, May ha 21 giorni per decidere cosa fare. E qui si aprono molteplici scenari.
“No deal”. Esito catastrofico per il paese, è un’ipotesi remota. Nessuno la vuole, anche se il governo non la esclude, e ha accelerato i preparativi in caso dovesse accadere (come del resto ha fatto la stessa UE). Il dato significativo è che, in virtù di un emendamento votato dai deputati solo poche settimane fa, il parlamento ha ora ampi poteri su qualunque Piano B eventualmente proposto dal governo in caso di bocciatura dell’accordo, e la maggioranza dei deputati non vuole un’uscita a precipizio.
Nuovo voto parlamentare. Dopo l’eventuale bocciatura, May potrebbe cercare di ottenere qualche piccola concessione a Bruxelles, quel tanto che le consenta di tornare a Westminster e sottoporre l’accordo ritoccato ad un ulteriore voto parlamentare (i cinici scommettono anche sul panico dei mercati dopo la prima bocciatura per far cambiare idea ai Comuni). Bruxelles è stata inflessibile nell’ultimo vertice, ma la UE ha una tradizione di compromessi dell’ultima ora e lo spettro del “no deal” potrebbe fare il resto.
Secondo referendum. Per mesi è stata un’ipotesi ai margini del dibattito politico, il sogno proibito degli eurofili delusi. Adesso molti vedono il secondo referendum, o “People’s Vote” secondo i sostenitori, come una via d’uscita dall’impasse. May lo esclude, ma nel passato ha spesso cambiato idea. Il ministro degli Interni Amber Rudd, a lei molto vicina, lo considera “plausibile”. E’ un’opzione in crescita, ma carica di rischi, che potrebbe portare a tensioni sociali e aumentare il senso di sfiducia verso le istituzioni: il referendum del 2016 era stato presentato come il voto che avrebbe deciso una volta per tutte la questione. L’esito di un nuovo referendum potrebbe poi essere più incerto di quanto si creda: molto dipenderebbe dalla precisa formula del quesito posto sulla scheda elettorale.
Nuove elezioni. Corbyn le chiede, i conservatori vogliono evitare un voto carico di incognite. Ma se questo parlamento non trova una maggioranza su nessuna forma di Brexit e se si esclude un nuovo referendum, potrebbe essere l’unica soluzione per sbloccare la situazione.
Altre ipotesi. Alcuni raccomandano una serie di voti parlamentari indicativi, dunque non vincolanti, per testare il sostegno ad ipotesi alternative, in particolare la cosiddetta “Norway plus”, che prevede che il Regno Unito continui a far parte del mercato unico con in più anche l’unione doganale: rispetto a oggi, perderebbe la rappresentanza nelle istituzioni UE. Oppure il meno regolamentato modello Canada, che non prevede la partecipazione al mercato unico o all’unione doganale, ma l’abolizione di dazi doganali e la possibilità di stringere accordi con Paesi terzi. I voti non sarebbero comunque risolutivi, ed è difficile pensare che una qualunque di queste ipotesi ottenga una maggioranza parlamentare, anche solo teorica.
Estensione dell’Articolo 50. Qualunque cosa accada, un’estensione è possibile, con il consenso della UE. La revoca totale, che bloccherebbe la Brexit, potrebbe essere invece essere decisa unilateralmente da Londra, come stabilito dalla Corte europea di Giustizia, per la gioia dei Remainers. La via per la Brexit è ancora molto lunga, e la confusione che ha dominato la politica britannica continuerà, almeno in questi primi mesi del 2019, in assenza di una visione e di una strategia chiara e coerente da parte degli attori coinvolti.