Il ‘game changer’ di Putin: ma qual è il ‘game’?
Di fronte alla tragica guerra in corso in Ucraina, non è certo da invidiare il compito di quanti sono chiamati a finalizzare i nuovi documenti strategici dell’Unione Europea (la cosiddetta “Bussola”, Compass, attesa per i prossimi giorni) e della NATO (il nuovo Concetto, previsto per giugno). Da loro ci si attende infatti una visione non contingente – strategica, appunto – delle minacce e delle sfide alla nostra sicurezza collettiva ma anche, inevitabilmente, una lettura convincente di quanto sta accadendo qui ed ora e, sperabilmente, pure alcune risposte di prospettiva alle angosce di queste settimane.
E’ d’altronde sempre molto difficile vedere attraverso quella che von Clausewitz chiamava “la nebbia della guerra” e discernere gli aspetti più immediati e visibili di una crisi dai suoi possibili effetti futuri, tanto più in una situazione di grande incertezza sui suoi sbocchi immediati. Se è evidente che l’invasione russa dell’Ucraina rappresenta quello che viene definito un game changer, può dunque valere la pena cercare di capire meglio la natura del ‘gioco’ in corso, per poi eventualmente stabilire quanto e come la crise du jour potrà cambiarlo.
Il paragone che ricorre più spesso nell’attuale dibattito politico e strategico è quello con la guerra fredda: siamo giunti, in altre parole, alla fine di un trentennio di relativa pace globale (sia pure caratterizzata da una crescente dinamica ‘multipolare’) e ritornati alle sfere di influenza e alla confrontation sistemica e militare? In effetti, la guerra in corso in Ucraina sembra tradurre in cruda realtà (anche visuale) proprio il tipo di attacco da Est immaginato dagli occidentali negli anni più cupi della guerra fredda: ripetute manovre di destabilizzazione e intimidazione e accuse di interferenza, seguite da una massiccia operazione convenzionale (bombardamenti a basi e infrastrutture, impiego massiccio di carri armati, ricorso a forze speciali e milizie paramilitari per azioni di sabotaggio) accompagnata da una disinformazione altrettanto massiccia – un’invasione meccanizzata, insomma, supportata da un’infiltrazione ‘ibrida’.
Il fatto che il linguaggio usato per giustificare l’aggressione faccia esplicito riferimento al modo in cui, nell’immediato dopo-guerra fredda, gli occidentali (e in particolare gli Stati Uniti) avrebbero indebolito, umiliato e ingannato Mosca sembra corroborare questa percezione di un ritorno al passato, e caratterizzare l’attitudine di Putin più come revanscista (con tutti gli elementi emotivi e perfino irrazionali che ne derivano) che come semplicemente revisionista.
Ma si tratta davvero (o soltanto) di questo? Non va dimenticato che, ancora qualche mese fa, il paragone con la guerra fredda veniva evocato con riferimento non alla Russia di Putin ma alla crescente rivalità fra Stati Uniti e Cina, e non più solo sul teatro asiatico. Si era perfino parlato della ‘trappola di Tucidide’, che nella sua storia della guerra del Peloponneso aveva descritto l’apparente inevitabilità del conflitto fra una potenza dominante in declino (Washington come Atene) e un’ambiziosa e aggressiva potenza emergente (Pechino come Sparta). In un contesto strategico globale in rapidissima evoluzione, insomma, è utile cercare di mantenere la ‘bussola’, appunto, e articolare alcuni punti d’appoggio ‘concettuali’.
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La guerra fredda non va vista, innanzitutto, come un insieme costante e uniforme. La contrapposizione ideologica, politica e militare (prima convenzionale poi anche nucleare) fra i due blocchi si è consolidata prima in Europa e poi a livello globale, ma senza che i blocchi avessero fra loro significative relazioni commerciali e finanziarie o interazioni a livello di società. Dopo il 1969, la Ostpolitik tedesca e la distensione – culminata nella Conferenza di Helsinki – portarono ad una relativa stabilizzazione del conflitto e al riconoscimento dello status quo, almeno in Europa, mentre gli accordi fra Washington e Mosca in materia di armamenti (soprattutto nucleari) contribuirono alla gestione e al controllo di eventuali crisi. In parallelo, con la famosa visita di Richard Nixon a Pechino di 50 anni fa, gli Stati Uniti riuscirono ad inserirsi fra le due potenze comuniste, riducendo anche le tensioni in Asia.
Sarebbe ingenuo sostenere che, durante le nuove ‘trente glorieuses’ seguite alla caduta del muro di Berlino, la competizione sistemica e ideologica fosse scomparsa: l’Occidente aveva riportato una vittoria strategica e goduto di indiscussa superiorità in termini militari e di soft power per oltre un decennio, ma le sfide – dalla minaccia del terrorismo al boom delle economie emergenti – non erano comunque mancate. Retrospettivamente, se si dovesse davvero identificare un momento simbolico per l’inversione di tendenza, si potrebbe forse scegliere l’agosto del 2008, con l’inizio della grande crisi finanziaria negli Stati Uniti, i giochi olimpici a Pechino e la guerra fra Russia e Georgia, seguita al controverso e ambiguo compromesso NATO sull’eventuale ammissione di Georgia e Ucraina nell’Alleanza.
Da allora data anche, del resto, l’inizio del riavvicinamento (tattico, non strategico) di Mosca a Pechino in funzione antiamericana. Ma il cosiddetto “unipolar moment” si era esaurito già nel decennio scorso, in un intreccio sempre più complesso a livello globale fra interdipendenza, cooperazione e competizione; con nuovi attori in gioco, non soltanto statuali; e in un contesto strategico in cui quasi tutti gli accordi di controllo degli armamenti sono stati denunciati o messi da parte – e comunque non impegnano la Cina e non sono applicabili alle nuove tecnologie dirompenti.
Oggi l’interdipendenza delle economie (e in parte anche delle società) non rappresenta più soltanto un incentivo alla cooperazione – come si era creduto dalla distensione in poi, e di nuovo all’apice della mondializzazione – ma, nella misura in cui crea ed espone vulnerabilità, anche alla competizione: competizione per il controllo di crescenti flussi commerciali e finanziari, di enormi flussi di dati e tecnologie e, perchè no, anche di persone su scala regionale e globale. Se proprio si dovesse proporre un paragone storico, insomma, sarebbe forse più con l’inizio del XX secolo – la prima vera globalizzazione – che con la sua seconda metà.
La competizione globale è oggi condotta fra coalizioni di interessi – più che di valori o ideologie – a geometria variabile, che mutano a seconda delle questioni in gioco, per cui ad esempio l’India si allea con Stati Uniti, Giappone a Australia in chiave anti-cinese in Asia, nel cosiddetto ‘Quad’, ma all’ONU si astiene (con la Cina) sulla condanna dell’invasione russa. Così hanno fatto del resto anche gli Emirati, che pure collaborano con Washington nel Golfo per contenere l’Iran, e diversi paesi africani , anch’essi astenutisi nel recente voto sull’Ucraina all’Assemblea Generale. Ed è appunto un’interdipendenza che costringe a cercare di tutelare i flussi bilaterali di gas, petrolio, potassio, alluminio e perfino grano anche nel pieno della guerra in corso – oltre che a tenere gli occhi ben aperti su eventuali attacchi cibernetici portati ben oltre il territorio dell’Ucraina.
In fondo, l’unica coalizione che in questo momento appare compattata su più fronti è proprio quella che comprende NATO (Turchia inclusa), UE e G7, come hanno mostrato anche le riunioni congiunte dei rispettivi ministri degli esteri a Bruxelles una settimana fa.
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Quanto all’apparente convergenza russo-cinese, non vanno sottovalutate le divergenze che permangono fra le due capitali: lo stesso nazionalismo panrusso che guida l’azione di Putin ad Ovest renderebbe problematica un’alleanza ad Est che vedesse Mosca come junior partner di Pechino; Russia e Cina sono più concorrenti che alleate in Asia centrale o meridionale; sono entrambe sempre più presenti ed attive (anche militarmente) nel Mediterraneo, in Medio Oriente e in Africa, ma con agende, calendari e metodi molto diversi e potenzialmente conflittuali; e mentre il revisionismo di Pechino opera ancora prevalentemente all’interno del sistema multilaterale esistente, sia pure per cambiarlo a proprio vantaggio (ma senza azioni dirompenti o destabilizzanti), il revanscismo di Mosca opera sovvertendone le regole di fondo. Per NATO, UE e G7, ovviamente, resta essenziale impedire una convergenza davvero ‘strategica’ fra i loro due principali competitori e avversari sistemici.
Questo appare insomma sempre di più come un long game di cui la guerra di Putin rappresenta un episodio importante ma la cui dirompenza dipenderà molto da come si concluderà, anche se potrebbe comportare nuove forme di containment adattate al contesto del XXI secolo: e queste, a loro volta, potrebbero davvero riportarci indietro di oltre mezzo secolo, con una Russia isolata economicamente e autoisolatasi politicamente. A chi sta preparando la Bussola europea e il Concetto transatlantico non resta dunque che consigliare il maggior allineamento possibile fra i due documenti – una sorta di “convergenza parallela” – nonché augurare buon lavoro, buona fortuna, e una shelf life più duratura di quella di molti dei testi che li hanno preceduti, spesso rivelatisi obsoleti poco dopo la loro pubblicazione.