Il fattore think tank nella politica americana degli ultimi anni
Per avere un’idea più chiara delle elezioni presidenziali americane del 2016 è necessario tenere conto del ruolo importante svolto dagli esperti dei think tank come consulenti delle campagne dei principali candidati negli ultimi anni: è il sistema delle “porte girevoli” nella politica americana. I contributi che i ricercatori di questi centri studi forniscono ai candidati alla Casa Bianca possono fungere da trampolino di lancio per il loro ingresso nel futuro staff presidenziale.
Se schierandosi con un candidato si rischia di perdere obiettività, scegliendo quello vincente si incassano grossi dividendi politici. Donald Trump e Bernie Sanders hanno assunto entrambi posizioni anti-establishment da Washington outsiders, ma anche se vestono abiti diversi sono fatti della stessa stoffa: un misto di nazionalismo populista (prima l’America e gli americani), di nativismo (anti-immigrati) e di protezionismo (antiliberista). Non lasciatevi ingannare dal loro aspetto anticonformista: entrambi hanno fatto affidamento sulle ali ultra-progressiste e ultra-conservatrici del Partito Democratico e di quello Repubblicano, ma anche su consiglieri scelti fra i centri studi e le fondazioni dell’establishment di Washington.
Molti casi recenti confermano il ruolo rilevante svolto dai think tank nel processo elettorale degli Stati Uniti, anche se il loro successo e la loro stessa sopravvivenza dipendono dalla loro autonomia rispetto al governo e agli schieramenti politici.
Un legame troppo stretto fra un partito o un uomo politico e un istituto di ricerca può essere pericoloso. Robert Boorstin del Center for American Progress ammonisce che quando ciò avviene, spesso il futuro di quest’ultimo dipenderà dalle sorti di un candidato presidenziale, il cui eventuale insuccesso potrebbe avere ripercussioni negative sull’istituto facendogli perdere influenza e sostegni finanziari. Ciò non significa, tuttavia, che gli esperti di un think tank non possono lavorare per i candidati presidenziali. Molti prendono parte alle loro campagne, che vengono viste dagli istituti cui appartengono come un’occasione per partecipare attivamente all’elaborazione di strategie politiche, senza oltrepassare i limiti consentiti. La semplice verità è che attraverso le campagne presidenziali questi think tank possono esercitare un’influenza significativa sulle politiche, sui loro responsabili e sul nuovo presidente.
La legislazione fiscale americana, inoltre, incentiva i centri studi a non schierarsi politicamente esigendo, se vogliono mantenere lo status di associazioni senza scopo di lucro esenti da tasse, che restino politicamente indipendenti o che comunque non sostengano apertamente specifici progetti di legge. Negli ultimi anni molti di questi istituti hanno svolto un ruolo più attivo cercando di esercitare una maggiore influenza e questo ha dimostrato i limiti di tali regolamentazioni.
La corsa alla presidenza del 2008 negli Stati Uniti è iniziata con un richiamo ai problemi della politica estera e si è conclusa con una drammatica risposta alla crisi economica, spingendo il candidato repubblicano, John McCain, a dichiarare che stava sospendendo la propria campagna per dimostrare la volontà di elevarsi al di sopra della politica e rispondere innanzitutto alla crisi finanziaria. Le competenze di politica estera acquisite dai candidati stanno a dimostrare l’importanza che assume la credibilità in questo campo durante la campagna elettorale e la tendenza dei centri studi ad associare il proprio nome a un particolare candidato.
Nel paragrafo successivo concentreremo l’attenzione sui consulenti di politica estera affiliati ai vari istituti di ricerca per stabilire se hanno prestato o no servizio come consulenti formali o informali. Non elencheremo tutti quelli utilizzati da ciascun candidato e tralasceremo quelli che hanno sostenuto, ma non consigliato, i candidati.
Il ticket Repubblicano del 2008…
Una caratteristica interessante del gruppo di consulenti di John McCain è il semplice numero, consistente, di famosi esperti di politica estera che lo hanno affiancato come consiglieri “informali”. Fra questi, figure di alto profilo come Richard Armitage, ex vicesegretario di Stato nella seconda amministrazione Bush; Bernard Aronson, ex vicesegretario di Stato per gli Affari InterAmericani; Max Boot, analista del Council on Foreign Relations ed ex redattore delle pagine editoriali del Wall Street Journal; Niall Ferguson, professore di storia moderna all’Università di Harvard e membro del senato accademico della dell’Hoover Institution; Robert Kagan, membro della Brookings Institution ed editorialista del Washington Post; Henry A. Kissinger, segretario di Stato del presidente Richard Nixon e del suo successore Gerald Ford; e prima del suo appoggio, ampiamente pubblicizzato, a Barack Obama, il generale Colin L. Powell, ex segretario di Stato del presidente George W. Bush.
Fra i consulenti ufficiali di McCain figuravano Michael J. Green, ex consigliere per l’Asia del presidente George W. Bush e oggi consulente per il Giappone del Center for Strategic and International Studies; Gary Schmitt, ex direttore dello staff di professionisti del Comitato scelto del Senato per le informazioni riservate (Senate Select Committee on Intelligence) e oggi ricercatore presso l’American Enterprise Institute; e il generale Brent Scowcroft, consigliere per la sicurezza nazionale dei presidenti Gerald Ford e George W. Bush e oggi consigliere e amministratore fiduciario del Center for Strategic and International Studies (CSIS).
Il governatore Mike Huckabee, invece, aveva promesso di cambiare “il tono e l’atteggiamento” della politica estera degli Stati Uniti e di aprire un dialogo con il resto del mondo. Come candidato alla presidenza, aveva ingaggiato Richard N. Haass, un prestigioso esperto di questioni internazionali, oggi presidente del Council on Foreign Relations e in passato direttore della Pianificazione Politica del dipartimento di Stato dal 2001 al 2003.
Secondo Mitt Romney, poi, le priorità della politica estera americana erano il rafforzamento delle forze armate e dell’economia degli Stati Uniti, il raggiungimento dell’indipendenza energetica, il rilancio della cooperazione civile-militare, oltre che fra le varie agenzie, e la rivitalizzazione delle alleanze. Un illustre consigliere di Romney sulla politica latino-americana era Mark Falcoff, esperto di America Latina presso l’American Enterprise Institute e un tempo consulente della Commissione per l’America Centrale durante la presidenza di Ronald Reagan.
Rudy Giuliani, infine, riteneva che le tre principali sfide in politica estera per il nuovo presidente fossero: vincere la guerra scatenata dai terroristi contro l’ordine mondiale; rafforzare le istituzioni internazionali che “i terroristi cercano di distruggere” ed estendere a tutti i popoli del mondo i benefici generati dal sistema internazionale. Come candidato alla presidenza, Giuliani è stato consigliato da un numero impressionante di esperti di vari istituti di ricerca.
Durante la sua campagna, il principale consulente di politica estera è stato Charles Hill dell’Hoover Institution. Altri collaboratori importanti sono stati Gerald Alexander, visiting scholar dell’American Enterprise Institute; Peter Berkowitz, ricercatore dell’Hoover Institution; Robert Conquest, storico del periodo sovietico, ex consigliere del primo ministro britannico Margaret Thatcher e ricercatore dell’Hoover Institution; Lisa Curtis, analista dell’Heritage Foundation; e David Frum, ex membro dell’American Enterprise Institute che scriveva i discorsi del presidente George W. Bush. Kim R. Holmes, vicedirettore del gruppo di ricerca sulla politica internazionale e la difesa dell’Heritage Foundation, ha svolto il ruolo di consulente per la politica estera durante la campagna di Giuliani per le presidenziali. Stephen Yates, ex vice-assistente del vicepresidente Cheney per le questioni della sicurezza nazionale e ora lobbista e membro dell’ American Foreign Policy, aveva svolto il ruolo di consulente per l’Asia.
L’Hudson Institute vantava un’ampia presenza nella campagna di Giuliani, al quale aveva fornito molti consulenti fra cui Charles Corner, esperto di questioni asiatiche; Norman Podhoretz, membro del comitato consultivo per la politica estera; Kenneth Weinstein, direttore generale dell’istituto, anch’egli esperto di politica internazionale; e infine, S. Enders Wimbush, direttore del gruppo di ricerca sulle strategie per la sicurezza futura che durante la campagna di Giuliani ha svolto il ruolo di consulente diplomatico.
…e quello Democratico
Barack Obama ha fatto una campagna elettorale con un programma di politica estera in cui proclamava che “la sicurezza e il benessere di tutti gli americani è legata alla sicurezza e al benessere di chi vive al di là dei nostri confini. La missione degli Stati Uniti è quella di fornire una leadership globale fondata sull’idea che il mondo condivide una sicurezza comune e un’umanità comune”. E in effetti, la “prima intervista televisiva” rilasciata dal nuovo presidente alla rete araba Al-Arabiya, sembra essere la conferma di una promessa fatta durante la sua campagna elettorale.
Due caratteristiche chiave del gruppo di consulenti della campagna di Barack Obama erano il loro stretto rapporto con il presidente Bill Clinton e i loro legami con i principali think tank. Fra di essi vi erano molti funzionari nominati durante l’amministrazione Clinton e ricercatori affiliati a think tank come il Center for Strategic and International Studies, la Brookings Institution e il Center for American Progress.
Alcuni ruoli di consulenza erano stati affidati, per esempio, a Jeffrey Bader, ex ambasciatore degli Stati Uniti ed esperto di affari asiatici del National Security Council durante la presidenza Clinton ed ex direttore del China Center del Brookings Institute; Ivo H. Daalder, direttore della sezione affari europei del National Security Council durante l’amministrazione Clinton, già membro del Brookings Institute e oggi ambasciatore statunitense presso la NATO; Richard Danzig, ministro della Marina dell’amministrazione Clinton e oggi membro del Center for Strategic and International Studies; Lawrence J. Korb, vicesegretario alla Difesa dal 1981 al 1985 sotto la presidenza di Ronald Reagan e oggi membro del Center for American Progress; Denis McDonough, anch’egli membro di quest’ultimo istituto ed ex consigliere politico di Tom Daschle e Susan E. Rice, esperta d’Africa del dipartimento di Stato e del National Security Council durante l’amministrazione Clinton e oggi membro della Brookings Institution; infine Mona Sutphen, ex assistente di Samuel Berger, consigliere di Clinton per la sicurezza nazionale e dell’ex ambasciatore presso le Nazioni Unite Bill Richardson, già direttore generale della società di consulenza Stonebridge e poi vice capo di gabinetto alla Casa Bianca sotto l’amministrazione Obama.
Durante la sua campagna, invece, Hillary Clinton aveva preannunciato una politica estera basata sul “multilateralismo, con l’opzione dell’unilateralismo quando è assolutamente necessario per proteggere la nostra sicurezza o scongiurare tragedie evitabili”. Intendeva collaborare con istituzioni internazionali come le Nazioni Unite e nel caso in cui queste organizzazioni fossero rimaste inattive, gli Stati Uniti “avrebbero dovuto costringerle a tener conto degli equilibri di potenza del XXI secolo e dei valori fondamentali enunciati in documenti quali la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo”.
Come capo della diplomazia americana, l’ex segretario di Stato ha avuto la possibilità di tradurre in atti le promesse della sua campagna presidenziale per la quale ha beneficiato del vantaggio esclusivo di potersi avvalere dei numerosi consiglieri del marito. Tra questi, il presidente del National Democratic Institute e l’ex segretario di Stato di Bill Clinton, Madeleine Albright, il suo ex consigliere per la Sicurezza Nazionale Sandy Berger e l’ex ambasciatore presso le Nazioni Unite Richard Holbrooke.
Hillary Clinton si è avvalsa, inoltre, del contributo di consiglieri informali, fra i quali Leslie Gelb, presidente emerito del Council on Foreign Relations e Strobe Talbott, presidente della Brookings Institution. Un altro collaboratore proveniente da questo think tank era Martin S. Indyk, ex ambasciatore del presidente Clinton in Israele ed ex direttore del Saban Center della Brookings Institution per la politica del Medio Oriente. Prima della sua nomina ufficiale, inoltre, l’ex segretario di Stato ha invitato a un incontro privato il presidente del Global Development, Nancy Birdsall, per discutere in dettaglio della politica di sviluppo.
John Edwards, infine, auspicava una politica estera basata su un nuovo impegno e sul lancio di una nuova iniziativa diplomatica per riaggiustare i rapporti con gli alleati degli Stati Uniti e con le altre nazioni del mondo, in particolare con l’Inghilterra, i paesi dell’Unione Europea e quelli dell’America Latina. I suoi consulenti per la politica estera sono stati Barry M. Blechman e Irving N. Blickstein, due esperti legati a due diversi think tank. Blechman, ex vicedirtettore dell’U.S. Arms Control and Disarmament Agency durante l’amministrazion Carter, è co-fondatore dell’Henry L. Stimson Center e presidente emerito del suo consiglio di amministrazione. Irving N. Blickstein è un ex-ufficiale di Marina di altro grado e ricercatore della Rand Corporation.
L’importanza delle “porte girevoli”
Per dimostrare il passaggio continuo di esperti dai centri di ricerca al governo ho esaminato i percorsi di carriera di più di 100 noti esponenti politici delle amministrazioni Clinton, Bush e Obama. Il sistema della “porta girevole” deriva in larga misura dalle consulenze fornite dai think tank ai dirigenti politici. Ogni nuovo presidente che viene eletto sostituisce numerosi quadri intermedi. Molti nuovi funzionari provengono dai centri di ricerca e molti di quelli fino ad allora in carica approdano in istituti analoghi.
Questo fenomeno della “porta girevole” ha favorito la formazione di “governi in attesa” fin dal 1961. L’amministrazione Obama non fa eccezione a questa regola. Il suo National Security Council conta due ex membri del Center for American Progress, Mara Rudman e Denis McDonough. Questo fenomeno della “porta girevole” appare di nuovo con Susan Rice, l’attuale ambasciatrice degli Stati Uniti alle Nazioni Unite. La Rice è stata in precedenza un esperta di politica estera e di economia internazionale e programmi di sviluppo della Brookings Institution e vicesegretaria di Stato nell’amministrazione Clinton prima di entrare nell’amministrazione Obama.
Richard Haass, presidente del Council on Foreign Relations (CFR) ed ex direttore della pianificazione del dipartimento di Stato, ha scritto che il sistema della “porta girevole” è una fonte di forza nella formulazione della politica estera americana. I think tank secondo lui sono un forum in cui i funzionari governativi possono prendere parte ai dibattiti di politica estera in corso e dar vita a un establishment informale, che fornisce consigli e commenti sugli affari internazionali. Il sistema della “porta girevole”, inoltre, consente agli esperti dei think tank di trovare le vie per raggiungere i decisori politici e fornisce una fonte affidabile di informazione indipendente libera da contaminazioni politiche con chi detiene il potere.
Confermando la tesi di Haass che il sistema della “porta girevole” fornisce esperti indipendenti e affidabili, Lee M. Katz, nel suo libro “ American Think Tanks: Their Influence is on the Rise”, sostiene che il Center for American Progress ha svolto un ruolo di cruciale importanza nella fase di transizione del presidente Obama ed è oggi una fonte di reclutamento del personale della sua amministrazione. Anche l’amministrazione Bush aveva reclutato molti funzionari dagli istituti di ricerca. I think tank consentono, inoltre, la formazione di governi ombra o in attesa dove gli esperti possono riflettere sulle politiche del passato, criticare e commentare quelle attuali e prepararsi a rientrare in una futura amministrazione.
Questo sistema della “porta girevole”, secondo Haass, è un fenomeno unico nella vita politica americana. In altri paesi democratici evoluti come la Gran Bretagna, la Francia e il Giappone, i nuovi governi trovano una continuità di personale disponibile nella pubblica amministrazione. Come ha detto in effetti Philip J. Crowley, anch’egli membro del Center for American Progress, i think tank sono la cosa che più assomiglia, negli Stati Uniti, a un governo ombra, come quello che esiste nel sistema politico britannico dove è costituito formalmente dal partito che non è al potere.
Lo scambio continuo tra governo e think tank sta a dimostrare l’importanza di questi istituti che forniscono a Washington preziosi apporti di idee e nuova linfa alla vita politica. A differenza di altri soggetti della società civile, come le società o le associazioni non-profit, gli esperti dei think tank entrano ed escono dai governi con fluidità. Quando le amministrazioni cambiano, i think tank funzionano come incubatori per gli esperti che stavano prima al governo, offrendo loro la possibilità di studiare, informare e produrre idee originali. Quando invece si insediano le nuove amministrazioni, i leader scelgono gli esperti più brillanti, ascoltando i loro pareri per raccogliere le idee migliori.
Questo legame inestricabile fra governo e istituti di ricerca attraverso la sovrapposizione di personale riafferma il ruolo dei think tank come quinto potere, davvero peculiare e distinto da quello degli altri attori della società civile.
* Here the English version of this article.