international analysis and commentary

Il fattore saudita in Siria e in Iraq, e i rischi per Riyad

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Tradizionalmente, la Siria orientale (regione di Deir ez Zor) e l’Iraq occidentale (governatorato di Al-Anbar) danno vita a uno spazio ad altissima interdipendenza economico-tribale. In questa macroregione di pastorizia e agricoltura, racchiusa fra i territori steppici della Badia e la piana della Jazira, i sauditi hanno sempre esercitato una forte influenza, grazie alla comune eredità culturale beduina. La partition coloniale europea del 1916 (che ridisegnò il Medio Oriente mediante gli accordi segreti anglo-francesi Sykes-Picot) divise la Badia in due, consegnandone una parte alla Siria e una all’Arabia Saudita.

Oggi, la guerra civile siriana e la nuova ondata di violenza settaria che ha investito l’Iraq contribuiscono a sfaldare frontiere statuali già erose – proprio come quella siro-irachena, mai esistita da un punto di vista clanico-tribale. Crescono così gli episodi di violenza lungo la dorsale fra Siria e Iraq: la città siriana di Abukamal è stata teatro di scontri fra oppositori siriani al regime degli Assad in alleanza con i qaedisti locali di Jabhat al-Nusra, contro i miliziani di Stato Islamico nell’Iraq e nel Levante (ISIS, marchio di Al-Qaeda in Iraq). Per la prima volta dall’inizio del conflitto siriano, il ministro degli Interni di Baghdad ha poi confermato, il 27 aprile scorso, un raid delle forze ufficiali irachene in territorio siriano (bersaglio un convoglio di ISIS diretto in Iraq) che ha portato all’uccisione di almeno otto terroristi: difesa dei confini e scontro settario qui si intrecciano, dal momento che il governo filo-sciita iracheno vuole impedire che l’insorgenza sunnita nell’Anbar e l’attività jihadista nell’est della Siria si alimentino a vicenda. Se nel 2003, dopo l’invasione anglo-americana dell’Iraq, il flusso di uomini e di armi andava dal suolo iracheno a quello siriano, la tendenza si è ora invertita, testimoniando l’osmosi fra le comunità arabe sunnite che qui vivono. Tra il XVIII e il XIX secolo, le tribù della confederazione degli Shammar e degli Aneza, originarie del Najd saudita, si stabilirono fra la Badia e la Jazira, monopolizzando il controllo delle rotte carovaniere del commercio, nonché il business dei pellegrinaggi nel triangolo Baghdad-Damasco-Mecca.

Nel quadro regionale odierno, l’Arabia Saudita aspira a massimizzare il proprio potere politico fra Siria e Iraq per almeno tre ragioni. Il primo motivo è di carattere puramente geopolitico: Siria e Iraq sono due paesi etnicamente e confessionalmente disomogenei al loro interno, guidati da regimi autoritari (Damasco) e da governi eletti semi-autoritari (Baghdad) a prevalenza sciita, nonché filo-iraniani. Pertanto, Riyad intende condizionare gli equilibri del futuro governo post-Assad e rafforzare i suoi interlocutori nella frammentata comunità sunnita irachena. Per i sauditi, pesare politicamente a Damasco significherebbe, inoltre, riguadagnare influenza nel vicino Libano. La seconda ragione è di natura energetica: il confine fra Siria e Iraq ospita sia giacimenti petroliferi (spesso contesi fra le tribù arabe sunnite e le popolazioni di etnia curda) che gasiferi; soprattutto, esso è uno snodo cruciale per le infrastrutture energetiche regionali. Paradossalmente, l’Arabia Saudita, regina del petrolio mondiale, è affamata di gas: l’obiettivo di Riyad è ridurre la quota di oro nero destinata ai crescenti (e inefficienti) consumi interni, per destinarla all’export, ricavandone maggiori entrate. Secondo le stime più accreditate, circa il 60% delle riserve accertate di gas naturale siriano è di tipo associato poiché si presenta, allo stato di natura, insieme al petrolio; il gas non associato – di più rapido utilizzo – si concentra però nella regione orientale della Siria dove esisterebbe, nei pressi di Deir ez Zor, un bacino speculare al grande campo di Akkas, nell’Anbar iracheno. I tubi che portano il gas siriano alle raffinerie e ai terminal della costa mediterranea (e alawita) del paese partono dall’est. A riguardo, il progetto di “gasdotto sciita”, annunciato nel 2011 da Iran, Iraq e Siria e destinato al mercato dell’Unione Europea, è stato finora bloccato dalla spirale di violenza nell’area; un risultato già positivo per le monarchie del Golfo, nonostante il Qatar puntasse a sua volta sul territorio iracheno (e sulla Turchia) per condurre il proprio gas fino alle coste europee.

La sicurezza regionale è poi il terzo motivo d’interesse saudita nei confronti delle tormentate terre fra Siria e Iraq. Dopo aver finanziato, in competizione geopolitica con il Qatar, la variegata e ambigua galassia delle opposizioni al regime degli Assad, Riyad teme ora la proliferazione della violenza jihadista e/o qaedista, di nuovo feroce lungo le rive dell’Eufrate. In questo senso, le contromosse saudite riguardano sia la politica interna che quella estera: dopo l’entrata in vigore della nuova legge anti-terrorismo (che innalza le pene fino a vent’anni di reclusione per i cittadini sauditi che hanno combattuto fuori dal paese nelle fila di organizzazioni considerate terroristiche), il regno wahhabita sta provvedendo a coordinare e sostenere le milizie siriane meno legate all’Islam politico. Faylaq al-Sham (Legione di Sham, ovvero delle terre del Levante) e Fronte del Sud sono i due esempi più recenti: la prima, che fa perno sull’area di Homs, raccoglie fuoriusciti dai rivoli armati della Fratellanza musulmana e può contare su un finanziatore siriano che vive in Arabia e lì intrattiene ottime relazioni di potere; la seconda, appoggiata anche dalla Giordania, si snoda fra Damasco e la zona meridionale di Dera’a (dove partì la protesta nel marzo 2011) e Quneitra, riunendo finora 30mila miliziani di 55 brigate diverse.

L’Arabia Saudita deve però affrontare crescenti difficoltà in entrambi i teatri di crisi. In Siria, il regime non solo tiene, ma riconquista città strategiche come Yabroud, fortino dei gruppi jihadisti operanti nel vicino Libano; si consolida così un trend inaugurato a Qusayr nell’estate 2013, grazie al determinante contributo degli Hezbollah libanesi. Secondo numerosi reportage giornalistici, proprio a Yabroud, nel mese di marzo, la spaccatura interna alle opposizioni avrebbe costretto Jabhat al-Nusra e formazioni appoggiate dal Qatar a ripiegare, lasciando la città ai filo-governativi (le milizie salafite di rinforzo, sostenute dai sauditi, sarebbero in realtà arrivate a Yabroud appena un giorno dopo la sua caduta). Nonostante Doha e Riyad dichiarino oggi di aver superato i recenti contrasti, scatenati dal sostegno qatarino alla Fratellanza musulmana nella regione (soprattutto in Siria e in Egitto), solo la prova del campo permetterà di scoprire quale livello di coordinamento militare e politico possono raggiungere le due monarchie del Golfo. Inoltre, il rapporto fra i sauditi e i Fratelli siriani è destinato a inasprirsi, perché il regno – piattaforma del finanziamento estero agli Ikhwan di Damasco – ha messo al bando il gruppo, tacciandolo di terrorismo.

In Iraq, il margine di manovra di Riyad è ancora più stretto. Gli Al-Saud avvertono la pericolosità (anche dal punto di vista petrolifero) di un Iraq forte, limitandosi a giocare una partita di interdizione nei confronti dell’Iran. Tuttavia, l’Arabia Saudita e il premier Nuri al-Maliki (sciita) hanno un obiettivo convergente: arginare l’espansione di ISIL, impedendo che si consolidi un’unica faglia di crisi fra l’Iraq occidentale e la Siria orientale. In realtà, Al-Maliki ha vinto la sua campagna elettorale per il terzo mandato proprio sul tema della lotta al terrorismo, argomento che gli ha permesso di mobilitare il frastagliato mondo sciita iracheno, insieme al sostegno internazionale. In questo quadro, il premier – che ha accusato Arabia e Qatar di fornire appoggio materiale all’insorgenza sunnita interna – ha abilmente sfruttato il peggioramento della crisi in Anbar (specie a Falluja) per svuotare dei contenuti politici la protesta della comunità sunnita, riducendola a una lotta fra “il governo” e “i terroristi”.

La sorta di ”imbuto sunnita” che si estende fra Deir ez-Zor e Al-Anbar vive, ancor prima che una crisi politica, un fortissimo malessere socio-economico, che talvolta si trasforma in emergenza umanitaria. La regione orientale della Siria registra intanto continue spinte migratorie dalle campagne agricole ai centri urbani, conseguenza di riforme terriere controproducenti e siccità ricorrenti. L’Anbar iracheno (in cui un terzo del milione e mezzo di abitanti si trova ora sfollato) si dibatte tra alleanze strumentali con Al-Qaeda in funzione anti-Baghdad e orgogliosa difesa della propria autonomia. L’impoverimento e il rancore delle periferie verso il centro politico incoraggia qui la deriva jihadista; di fronte a questo scenario, qualsiasi progetto di influenza saudita lungo l’Eufrate potrebbe quindi rivelarsi vano, esponendo inoltre il regno a pericolose ricadute sul piano della sicurezza interna.