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Il dominio dello spazio

Questo articolo è pubblicato sul numero 3-2025 di Aspenia

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Sessant’anni dopo le prime passeggiate extraveicolari, l’orbita bassa terrestre è diventata la dorsale invisibile dell’economia e della sicurezza. Lo si è visto con chiarezza mesi fa: l’interruzione globale di Starlink per circa due ore e mezza nella notte tra il 24 e il 25 luglio 2025 ha lasciato senza rete, in più continenti, voli con wifi, natanti in navigazione e punti vendita rurali. Ha degradato i collegamenti di unità impegnate sul fronte orientale europeo, segnalando quanto le reti commerciali in orbita siano ormai parte integrante degli ecosistemi difensivi e civili. A inizio agosto 2025 i satelliti Starlink in orbita hanno superato quota 8.000, consolidando la dipendenza di interi paesi e settori industriali da un’unica costellazione privata e rilanciando il dibattito su regole, responsabilità e sovranità nel dominio spaziale.

 

COMPETIZIONE O REGOLAMENTAZIONE? L’ultima tornata di sviluppi geopolitici sollecita la domanda di fondo: siamo davanti a uno scramble for space, una corsa all’accaparramento senza regole, oppure a un graduale consolidarsi di una governance capace di tenere insieme sicurezza, mercato e sostenibilità? Gli indizi vanno in entrambe le direzioni. Sul fronte della competizione, la Cina ha testato il suo lander lunare Lanyue, tassello centrale del programma che punta a portare astronauti cinesi sulla Luna entro il 2030 e, più avanti, ad allestire una base permanente, anche con capacità energetiche avanzate. È la traduzione tecnologica di una strategia di lungo periodo che contrappone all’architettura statunitense di Artemis il progetto sino-russo di International Lunar Research Station (ILRS), una piattaforma che Pechino sta internazionalizzando da mesi con nuovi partner e memorandum.

Sul fronte occidentale, gli Stati Uniti faticano a mettere ordine nel proprio ecosistema di space safety: i tagli proposti al sistema civile di gestione del traffico spaziale (TraCSS) hanno allarmato l’industria, tanto che poi il Congresso si è mosso per ripristinare i fondi. In mezzo, l’Europa prova a ritagliarsi un ruolo regolatorio con l’EU Space Act e con la progressiva costruzione di una capacità autonoma di connettività sicura (IRIS²). Sono mosse diverse che disegnano una mappa in cui potere tecnologico, diplomazia normativa e mercati si intrecciano.

La competizione è anche diplomatica. A fine luglio il Senegal è diventato il 56° paese a firmare gli Artemis Accords, segnando un’ulteriore espansione del perimetro politico-giuridico costruito intorno al programma lunare statunitense. È un esempio emblematico di “geopolitica delle firme”, perché gli Accordi non sono solo principi condivisi: sono un linguaggio operativo fatto di trasparenza, interoperabilità, “zone di sicurezza” attorno ai siti lunari, che tende a creare standard de facto. Dall’altra parte, Pechino rivendica la crescita della coalizione ILRS e accusa Washington di ostacolare le collaborazioni con partner europei e asiatici; la Cina intesse relazioni spaziali profonde in Africa, combinando satelliti, stazioni di terra e programmi formativi. Anche qui, oltre la retorica, contano i numeri e le infrastrutture: reti di telemetria, downlink e assemblaggio locale di satelliti costruiscono fedeltà politiche, accesso ai dati e capacità duali difficili da replicare.

 

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Il campo di battaglia, però, non è soltanto la Luna. È anche l’atmosfera rarefatta, gremita di piattaforme che abilitano tutto: navigazione aerea e marittima, osservazione della Terra, reti di droni e missili a guida satellitare. Qui la frizione tra ordine e disordine prende la forma di minacce “sotto la soglia”: jamming e spoofing del segnale GNSS, interferenze elettroniche, cyberattacchi ai segmenti di terra. Durante la guerra dei dodici giorni tra Israele e Iran (giugno 2025), l’aviazione civile e il traffico marittimo hanno registrato picchi di interferenze GNSS (jamming e spoofing) soprattutto nel Mediterraneo orientale e nel Golfo Persico. Alcuni vettori hanno ripianificato rotte e aumentato i tempi di volo, facendo ricorso a procedure di radionavigazione ridondanti (VOR/DME, INS/IRS) e a mitigazioni operative. La guerra elettronica entra così stabilmente in cabina di pilotaggio e in plancia: lo spazio non è “militarizzato” solo in orbita, ma viene negato o degradato a terra nei teatri contesi.

 

LE STRATEGIE NELLO SPAZIO. Questa permeabilità fra sfera civile e militare spiega perché la sicurezza spaziale non sia più un affare esclusivo delle forze armate. La dipendenza da costellazioni commerciali, Starlink in testa, spinge i governi a ripensare compiti e responsabilità. Negli Stati Uniti, la contesa su TraCSS è paradigmatica: l’industria chiede un servizio pubblico di space traffic coordination con dati di base gratuiti e affidabili, separato dal perimetro militare. Il rischio opposto è la frammentazione in piattaforme proprietarie e la perdita di leadership tecnica e normativa. La recente apertura del Congresso a rifinanziare il programma segnala che Washington ha colto il pericolo, ma la vicenda resta un indicatore della fatica occidentale nel trasformare consapevolezza strategica in politiche stabili.

L’Europa si muove su un terreno complementare. Con la proposta di EU Space Act del 25 giugno 2025, Bruxelles prova a fare dell’Unione un committente regolatorio: armonizzazione delle licenze, requisiti di sicurezza informatica, fine vita obbligatorio per i satelliti e maggiore integrazione con il sistema di sorveglianza spaziale europeo (EU SST). È un tentativo di allineare mercato e tutela dell’ambiente orbitale, dando all’industria un quadro prevedibile e, insieme, un vantaggio competitivo fondato sul compliance by design. In parallelo, la Commissione ha definito a giugno la procedura per allargare la EU SST Partnership: perché il tracciamento e la prevenzione delle collisioni sono la condizione minima per ogni ambizione in orbita, dalla connettività sicura IRIS² ai servizi di osservazione. È l’embrione di un vero Space Traffic Management europeo, ancora incompleto ma finalmente visibile.

 

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Se spostiamo lo sguardo sulle logiche di potenza, lo schema è chiaro. Washington punta a preservare la libertà d’azione nello spazio attraverso la superiorità tecnologica e un’architettura normativa a cerchi concentrici: Accordi Artemis per gli alleati, coordinamento civile del traffico, posture militari che privilegiano strumenti terrestri più maturi e plausibilmente meno destabilizzanti, al fine di neutralizzare assetti avversari. Pechino procede con un whole-of-nation approach: industrial policy, diplomazia infrastrutturale, standard proprietari, cadenzati da missioni vetrina (campioni lunari, lander, spazio-piano riutilizzabile) che legittimano gli investimenti e attraggono partner. Tra i due, l’Europa gioca la carta della regolazione e della resilienza, consapevole di non potersi permettere un altro “caso 5G” in orbita: qui il costo dell’asimmetria si misura in detriti e interruzioni di servizio, non solo in quote di mercato.

Il diritto internazionale, intanto, fatica a inseguire. Il Trattato sullo Spazio del 1967 non contempla la realtà delle megacostellazioni, dice poco sull’estrazione di risorse e nulla sulla gestione del traffico; le Linee guida dell’ONU per la sostenibilità a lungo termine sono volontarie e COPUOS – il Committee on the Peaceful Uses of Outer Space, istituito nel 1959 per regolamentare l’esplorazione e l’uso dello spazio – procede per consenso, con tempi diplomatici spesso incompatibili con la dinamica industriale. La stagione 2025 del Comitato si è chiusa con un’agenda tecnica densa ma priva di svolte vincolanti; il vuoto viene colmato da soft law e standard industriali, con il rischio di creare zone grigie dove le pratiche più aggressive – dalle capacità anti-satellite all’uso offensivo dei disturbi GNSS – restano sotto la soglia della sanzione.

 

REGOLE PER LA SICUREZZA ORBITALE. In questa cornice la Luna, più che una destinazione, è un dispositivo di potere. Le prime “regole del vicino spazio” nasceranno nei cantieri cis-lunari, dove le architetture di missione e i contratti industriali codificheranno consuetudini: interoperabilità dei lander e dei sistemi di comunicazione, trasparenza su aree di lavoro e stoccaggio, gestione dei campi di detriti, diritti sulle risorse estraibili e sui dati generati. Gli Artemis Accords e l’ILRS offrono due sponde. La scelta dei partner, soprattutto per i paesi emergenti, rischia di cristallizzare appartenenze tecnologiche difficili da rinegoziare più avanti. Per l’Europa, l’errore sarebbe immaginare una neutralità impossibile: il modo migliore per “non scegliere” è definire standard aperti e verificabili che costringano chiunque voglia operare con noi ad accettare una certa disciplina tecnica, prima ancora che politica.

Cosa significa, in pratica, evitare che la “nuova corsa allo spazio” soffochi la regolazione? Anzitutto riconoscere che la sicurezza orbitale è un bene pubblico globale, da finanziare e governare con meccanismi multilaterali ma anche con strumenti di mercato. Un modello è quello dei debris bonds: cauzioni obbligatorie restituite solo a deorbitazione avvenuta, che trasformano l’esternalità negativa dei detriti in costo anticipato. Un secondo pilastro è la trasparenza operativa delle megacostellazioni, con la condivisione in tempo quasi reale di telemetrie con un’entità civile indipendente: la lezione dell’aviazione – l’ADS-B come standard abilitante – vale anche in orbita. Terzo, serve una sede credibile per la risoluzione delle dispute su interferenze e spettro: senza enforcement minimo, ogni linea guida resta lettera morta. Infine, il raccordo pubblico-privato deve diventare strutturale: finanziare la sicurezza di base – monitoraggio, cataloghi pubblici, alert di collisione – non è un sussidio all’industria, è il prezzo di un mercato che funzioni. Le ultime decisioni su TraCSS, il cantiere europeo sullo Space Act e il rafforzamento di EU SST indicano che questa consapevolezza sta maturando, ma occorre consolidarla in tempi di bilancio e di elezioni volatili.

Nel frattempo, la realtà ci obbliga al disincanto. L’estate 2025 ha mostrato come blackout satellitari, disturbi GNSS e chiusure improvvise di spazi aerei possano propagarsi dall’orbita alle nostre vite quotidiane in poche ore. La soppressione “chirurgica” dello spazio passa dall’occasionale silenzio di un terminale di connettività a un segnale di posizione falsato. È qui che si misura la maturità delle democrazie tecnologiche: non nella spettacolarità dei lanci, ma nella capacità di mantenere un servizio, imporre standard, sanzionare comportamenti pericolosi e accogliere nuove potenze in un ordine esigente ma aperto.

Se lo scramble for space è la tentazione di trasformare il vantaggio tecnologico in gerarchia permanente, la regolazione è l’arte – meno spettacolare, e perciò indispensabile – di renderlo compatibile con l’interdipendenza. Lo spazio resterà competitivo per natura fisica e valore strategico; la vera domanda è se sapremo competere senza distruggere il campo di gioco. Gli ultimi sviluppi offrono segnali contrastanti: un nuovo tassello nella corsa lunare cinese; negli Stati Uniti e in Europa la riscoperta che la sicurezza del traffico spaziale è un bene pubblico; un altro paese africano aderisce agli Accordi Artemis; e l’ennesima prova che un guasto in una costellazione commerciale può propagarsi rapidamente lungo le reti critiche europee.

In questo equilibrio precario, la via d’uscita dall’accaparramento passa da regole chiare, incentivi corretti, istituzioni capaci di farle rispettare e un’industria disposta a giocare su un orizzonte lungo. Se ci riusciremo, l’orbita bassa resterà non solo la dorsale del presente, ma anche un capitolo affidabile del nostro futuro.

 

 


Questo articolo è pubblicato sul numero 3-2025 di Aspenia.