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Il dibattito su Brexit: opportunità politica e segno dei tempi

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La discussione sul rischio “Brexit” ci avvicina a un ennesimo bivio per lo sviluppo dell’Unione. Un bivio che impone la ricerca di nuove vie. E che riguarda la natura politica del processo di integrazione.

Il negoziato con il Regno Unito è partito dall’imperativo politico di mantenere il Paese nell’Unione, ovvero di facilitare le condizioni affinché questo avvenga nelle circostanze storicamente determinate. Quell’imperativo non è scontato. Per la fuoriuscita britannica convergono le opinioni di accaniti euroscettici e le illusioni di chi, al contrario, è convinto che senza la zavorra britannica si avvicini il sol dell’avvenire di una maggiore integrazione. Per la permanenza nella UE valgono invece ragioni storiche, culturali, economiche, politiche. Ragioni storiche, perché poche vicende rendono concreto il senso della storia della Comunità come patrimonio di pacificazione e stabilità, come riesce a fare la memoria della resistenza britannica contro il nazifascismo, sull’Isola e sul Continente. Considerazioni culturali, perché dalla lingua e dalla presenza anglosassone nella cultura amministrativa europea, dal suo ruolo nel tessuto culturale e giuridico europeo deriva una forza unitaria poco misurabile se non sulla base di un suo teorico venire meno. Ragioni economico-politiche, perché con il Regno Unito l’UE è un’Unione di oltre cinquecento milioni di cittadini, prima al mondo come potenza commerciale, per prodotto interno lordo, per aiuti allo sviluppo e tra i primi come potenziale militare. Infine, Brexit potrebbe promuovere dinamiche divisive in altri paesi. Non sono ragioni scontate.


Un negoziato fortemente politico

Per certi aspetti il negoziato ha avuto modalità anomale: un giro di consultazioni nel formato cosiddetto “confessionale” (bilaterali tra istituzioni europee e delegazioni nazionali) a partire da una lettera del primo ministro David Cameron sui principi generali, una bozza di accordo presentata congiuntamente dalle Istituzioni europee e dal governo del Regno Unito, un breve round negoziale nel giro di una decina di giorni con due sole riunioni dei rappresentanti personali dei leader e del Parlamento europeo, un Consiglio europeo con tanto di sedute notturne.  La storia giudicherà se la mossa di Cameron di porre il proprio paese di fronte a una scelta di questo tipo, e l’Unione europea di fronte a un negoziato in questi termini, è stata una svolta nel senso di un chiarimento duraturo, un ennesimo distinguo al ribasso made in Britain, o un azzardo.

L’Italia ha sostenuto con convinzione le ragioni della permanenza del Regno Unito nella UE, senza rinunciare a quelle di una maggiore integrazione: la linea tracciata nella lettera dei rispettivi Ministri degli Esteri, Paolo Gentiloni e Philip Hammond. Italia e Gran Bretagna vi hanno affermato il principio delle “diverse vie di integrazione”. Due visioni molto diverse dell’UE e del suo possibile futuro. Il governo italiano ha affermato una vocazione esplicitamente federalista; quello britannico una visione minimalista delle istituzioni comuni. Entrambi si sono detti convinti che le due visioni possano convivere e anzi animare un dibattito sul futuro e sull’identità dell’Unione.

Non è secondario che il governo britannico si sia detto esplicitamente favorevole a facilitare, pur standone fuori, l’approfondimento dell’Eurozona. E’ su questo presupposto che si è pervenuti a un accordo dei Ventotto che fa riferimento proprio al concetto di “diverse vie”. Questo ha evitato si cementassero i presupposti per una revisione al ribasso del Trattato sul punto della “ever closer Union”. L’Italia ha agito di concerto con altri attori – in particolare i rappresentanti del Parlamento europeo, Francia, Germania, Belgio – sia su questo punto, sia per mantenere unitario il quadro normativo sui servizi finanziari, per rimandare alla normale procedura legislativa gli aspetti relativi ai sistemi di sicurezza sociale e di libertà di circolazione dei lavoratori.