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Il circolo vizioso dell’informazione digitale e il caso Russia: allerta ma niente panico

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 Da qualche anno, ad ogni tornata elettorale – in Europa e negli Stati Uniti – si riaccende la discussione sul ruolo della comunicazione digitale e sui relativi rischi di disinformazione e manipolazione. Ciascun paese sperimenta il problema in modo particolare, ma ci sono dei tratti comuni. La dinamica di fondo da comprendere è il circolo vizioso che favorisce appunto la disinformazione – le vere e proprie fake news o comunque l’utilizzo distorto e distruttivo di notizie in parte vere.

Chi “crea” notizie e le immette nei circuiti digitali può inventare storie e narrazioni che assumono spesso vita propria, grazie al meccanismo di rimbalzo e contagio tipico dei social network. E’ facile passare così dal puro funzionamento del “confirmation bias” (per cui vogliamo sentirci dire ciò che già riteniamo vero o giusto) o del “gossip” fino alla manipolazione deliberata – quasi sempre anonima o non del tutto tracciabile. Chi mette in circolazione notizie false o ritoccate è oggi favorito dai meccanismi stessi di fruizione: disseminare notizie e storie di qualsiasi tipo è più facile se non si deve attraversare alcun filtro (in passato si sarebbero dovuti convincere dei giornalisti a pubblicare), come accade nell’attuale contesto di forte “disintermediazione”. In tal senso, il caso  di Wikileaks – che tanto scalpore ha fatto negli ultimi anni – si può ancora considerare di tipo ibrido, visto che solitamente i “leaks” sono stati girati comunque ai grandi media tradizionali per assicurarsi maggiore diffusione e un’ampia cassa di risonanza. Siamo ora andati oltre quel modello, con la fabbricazione sistematica di notizie vagamente plausibili – soprattutto agli occhi di chi vuole trovarle tali per confermare le proprie opinioni – ma non corroborate.

Non va sottovalutato inoltre il fatto che fake news e teorie del complotto sono spesso “entertaining”  e talvolta perfino goliardiche, facendosi seguire quasi come un film d’azione: è una specie di “infotainment” senza filtro, in cui fa premio la notizia che soddisfa un desiderio di mettere in piazza i presunti segreti dei potenti. Il problema è che, quando questo nuovo gossip si mescola con la polemica politica, il risultato tende a favorire, per selezione naturale, le notizie più negative ed estreme; questo a sua volta erode la credibilità delle istituzioni e dunque un fondamentale elemento democratico, e fa da “fulfilling prophecy” per la comunicazione politica senza mediazioni. A quel punto, un circolo vizioso è pienamente innescato.

In un contesto così complicato si inseriscono poi i fattori esterni di tipo geopolitico, come dimostra l’attenzione generata dalle presunte responsabilità russe – assai difficile dire se anche governative o soltanto di alcuni gruppi, o perfino di hacker isolati – nel disseminare “disinformazione mirata”. Va detto che non siamo di fronte a un fenomeno nuovo: la guerra fredda ha visto un ricorso massiccio a tecniche del genere da entrambe le parti (blocco sovietico ma anche blocco americano/occidentale), ovviamente con le tecnologie dell’epoca.  E’ vero però che la disinformazione degli ultimi anni sembra avere la peculiarità di minare le democrazie dall’interno più che “attaccarle” direttamente, e in tal senso pone una sfida più subdola. In pratica, la tecnica consiste soprattutto nel generare dubbi e sospetti, sfruttando un malessere latente in vari strati delle società occidentali.

Ora, che questa sia una grande strategia vincente per la Russia resta da verificare: semmai appare più come una forma di opportunismo e di guerriglia culturale a bassa intensità. E’ comunque opportuno prestarvi attenzione e ragionare su possibili contromisure attive e anticorpi all’interno delle nostre stesse società aperte.

Anzitutto, esistono tuttora le misure classiche del controspionaggio e della contro-informazione, che oggi richiedono soprattutto il “tracking” di eventuali hacker, cioè non tanto strumenti difensivi in senso stretto quanto piuttosto di contro-offensiva – chi viola un sistema si rende in parte vulnerabile ad essere a sua volta “seguito” e a volte rintracciato. Più ampiamente, è decisivo che il grande pubblico si abitui alla diversità e alla varietà delle fonti. Non è vero che le società aperte e democratico-liberali abbiano uno svantaggio comparato; hanno certamente esigenze diverse da paesi autocratici o semidemocratici poiché sono vincolate dal rispetto di alcuni diritti inalienabili e da una ben più solida “rule of law”. A confronto di un sistema politico come quello russo, le società democratico-liberali sono più competitive in modi diversi (molto più competitive), ma devono comunque essere ben coscienti dei cambiamenti in atto nei modi di interazione tra i loro cittadini (come anche tra cittadini e istituzioni). E adattare di conseguenza anche i meccanismi della comunicazione politica alla cascata di dati digitali in cui tutti siamo immersi.

E’ opportuno quindi essere allerta, ma non c’è motivo per una sorta di panico diffuso sul funzionamento della democrazia moderna in quanto tale. Le società aperte e liberali di mercato sono state fino ad oggi assai più innovative e duttili rispetto a tutti i modelli politici alternativi. La paura della tecnologia non ci aiuterà certo a continuare su quella strada. Quanto alle varie forme di interferenza esterna che i social network consentono, il fatto stesso che alcuni individui e organizzazioni russi facciano ricorso frequente all’infiltrazione digitale riflette le gravi carenze di quel paese in altri settori: dinamismo economico, qualità della vita, libertà di dibattito politico. Siamo di fronte a tecniche indirette e asimmetriche per la semplice ragione che in una competizione diretta e simmetrica non ci sarebbe storia.