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Il ciclone Trump e l’anima del Partito Repubblicano

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Quando il processo di riunificazione dei repubblicani attorno a Donald Trump sembrava compiuto, malgrado sacche di resistenza minoritarie, il miliardario newyorchese ha nuovamente alzato l’asticella della provocazione; come se volesse testare per l’ennesima volta la tenuta dei compagni di partito che si erano con fatica allineati.

Trump ha preso ad attaccare con la sua proverbiale insistenza Gonzalo Curiel, il giudice che si occupa del caso di frode della Trump University. Secondo il candidato, Curiel non può essere un giudice imparziale per via delle sue origini messicane, e lo stesso ragionamento varrebbe anche per eventuali giudici musulmani che si trovassero a giudicare il cittadino americano Donald Trump.

Diversi leader del partito che avevano offerto il loro appoggio a Trump si sono dissociati dalle accuse a un rappresentante del potere giudiziario. “Non potrei essere più in disaccordo con lui” ha detto il leader repubblicano al Senato, Mitch McConnell, mentre il senatore Lindsey Graham, anti-trumpiano che aveva chinato il capo e ora ritorna sui suoi passi, ha definito l’episodio “la cosa più un-american fatta da un politico dai tempi di Joe McCarthy”. L’ex speaker della Camera, Newt Gingrich, trumpista più convinto di altri, ha definito le uscite “inscusabili”: “È uno dei peggiori errori di Trump”.

L’attacco frontale a un magistrato documenta un salto di qualità nella retorica dell’ostilità di un candidato già estremamente controverso, un gesto che a detta di alcuni suoi tiepidi sostenitori lo squalifica in modo definitivo da una corsa presidenziale. L’impressione, però, è che si tratti soltanto dell’episodio di un reality show già visto.

Il format è noto. Finora la trama è stata questa: i maggiorenti repubblicani passano, nei confronti di Trump, dallo stupore al disgusto e poi all’endorsement nel giro di pochi mesi. Lo speaker Paul Ryan, che “rifiutava la politica dell’identità di Trump” gli ha dato il suo appoggio; per il capo del partito  Reince Priebus – era “patetico”, ma ora ha il suo sostegno. “Un pazzo che va fermato”, diceva il governatore Bobby Jindal, che ora dichiara il suo voto favorevole. Per l’ex governatore del Texas, Rick Perry, era niente meno che un “cancro del conservatorismo”: oggi è certo che “si circonderà di persone qualificate”. Ma forse nessuno ha fatto una piroetta ardita quanto quella del deputato Chris Stewart, che nel giro di due mesi è passato dal definirlo “il nostro Mussolini” a “l’uomo che può unire il partito per battere Hillary Clinton”.

Insomma, il corpo centrale del Partito Repubblicano si è aggregato, suo malgrado, al vincitore delle primarie: un po’ per mancanza di alternative praticabili dopo i verdetti umilianti delle urne per gli uomini dell’establishment, un po’ per la segreta speranza che Trump fosse in qualche modo addomesticabile. Eppure, ogni volta che si sono avvicinati, l’indomabile Trump ha fatto un balzo in avanti per costringere gli alleati ormai incatenati a lui a seguirlo – ed evidentemente convincere l’opinione pubblica che gli endorsement del partito non significano la stipula di alcun compromesso.

Quello del giudice non è che l’ultimo episodio di una sequenza nella quale si riconosce un metodo. L’alternativa, cioè l’opposizione radicale e irriducibile a Trump, a costo dello scisma, è un affare minoritario. L’animatore della falange più agguerrita è il direttore del Weekly Standard, Bill Kristol, anima dei neoconservatori, la corrente di destra che per storia e impostazione internazionalista è la più lontana dalla forma mentale nazionalista del trumpismo. Da quell’area sono già fuoriusciti diversi intellettuali, che a novembre voteranno Hillary.

La ricerca da parte di Kristol di qualcuno disposto a scendere in campo come indipendente si fa però ogni giorno più donchisciottesca. L’ultimo nome agitato è quello, assai poco riconoscibile, di David French, avvocato ed editorialista della National Review. In ogni caso anche lui, dopo alcuni giorni di riflessione, si è chiamato fuori, lasciando il fronte “Never Trump” ancora orfano di un terzo candidato che a novembre possa offrire un’alternativa ai conservatori che proprio non riescono a dare la preferenza a Trump o a Hillary, nemmeno turandosi il naso.

Gli irriducibili sono una minoranza ormai esigua e senza un piano preciso, mentre l’establishment credeva di avere trovato una formula per tenere insieme il partito di Lincoln, salvare la legittimità del voto e contemporaneamente “moderare” Trump. Se, pur in mezzo a un ginepraio di difficoltà, l’unificazione sta in qualche modo avvenendo, la strada della moderazione è invece ancora lunga.