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Il caso Kazakistan tra Russia e dinamiche locali

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Quando il 2 gennaio decine di persone sono scese in piazza a Zhanaozen, una città della regione di Manghistau, nell’ovest del Kazakistan, di circa 150 mila abitanti, per protestare contro l’aumento del prezzo del GPL, quasi nessuno si aspettava che dopo pochi giorni la situazione sarebbe precipitata tanto da richiedere l’ingresso dei militari di un’organizzazione militare di 6 paesi post-sovietici a guida russa, l’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (CSTO in inglese), per ristabilire l’ordine in tutto il paese e in particolare nella ex capitale kazakha, Almaty.

La dimostrazione del 2 gennaio a Zhanaozen, da cui le proteste si sono estese a tutto il paese

 

Una missione “per il mantenimento della pace e il controllo di infrastrutture strategiche”, quella del CSTO, la prima della sua trentennale vita, conclusasi nel giro di una settimana o poco più. Nel mezzo, centinaia di vittime, migliaia di feriti, arresti a tappeto, stato d’emergenza e coprifuoco nel paese fino al 19 gennaio, ma anche un colpo duro alla (già scarsa) fiducia della popolazione verso le élite al potere e, non di meno, all’immagine di un paese stabile in una regione, l’Asia centrale, molto permeabile agli eventi regionali e internazionali.

Risolta la questione sicurezza, però, rimangono aperti molti interrogativi sugli eventi e sulle questioni economiche e sociali che dovranno essere affrontate. Patrimoni smisurati concentrati nelle mani di pochi, salari bassi, precariato, corruzione, disuguaglianze e altre difficoltà che la pandemia ha accentuato non possono essere risolte solo con la repressione e con un ritorno alla normalità di prima.

 

Il contesto generale

Quando il presidente del Kazakistan, capo dello stato fin dalla sua indipendenza alla caduta dell’URSS, Nursultan Nazarbaev, si dimise nel 2019 per rimanere però a capo del Consiglio supremo di sicurezza, più di qualche analista aveva guardato al passaggio di potere con l’attuale presidente, Qasym-Jomart Toqaev, come a un esperimento replicabile in quei paesi post-sovietici dove la transizione da un regime socialista a un sistema, almeno in teoria, più democratico è stata traumatica. In particolare, diversi osservatori avevano proposto questo modello duale, con Toqaev capo dello Stato e Nazarbaev sullo sfondo come padre della patria, anche per la Russia, dove era in corso un processo di revisione costituzionale che nel 2020 avrebbe dovuto tracciare la strada per una Russia post-putiniana. Ma la pandemia ha fatto saltare quel disegno, anche in questo caso forse accelerando un processo che sarebbe stato in ogni modo inevitabile.

Tuttavia, provare a interpretare gli sviluppi della politica nelle ex repubbliche sovietiche ricorda sempre la famosa descrizione della politica in Russia attribuita a Winston Churchill, secondo cui questa “ricorda una battaglia fra cani sotto un tappeto: non si capisce mai cosa accade fin quando non emerge il vincitore da sotto il tappeto”. A distanza di tre anni, Vladimir Putin è ben saldo al Cremlino, mentre di Nazarbaev, in onore del quale era stata ribattezzata Nur-Sultan la capitale Astana, non è ancora chiaro il destino. Né il suo, anche se sembrerebbe essere ancora nel paese, né quello delle persone a lui vicine, dalla famiglia più stretta ai fedelissimi di cui un tempo faceva parte lo stesso Toqaev, già diplomatico sovietico che si era ritagliato un ruolo di uomo esperto e affidabile per gestire il passaggio di potere.

 

Mosca nel “destino” politico di Nazarbaev

Nel 1986 Nazarbaev si conquistò il favore popolare criticando il potere centrale di Mosca, al punto che la gente scese in piazza per protestare contro la scelta del Cremlino che aveva deciso di rimpiazzare il capo del Partito comunista kazako, Dinmukhamed Kunaev, con un funzionario di partito russo, Gennady Kolbin. Ne scaturì una manifestazione studentesca che, a metà dicembre del 1986, si trasformò in una rivolta di tre giorni contro gli “occupanti” russi. La repressione sovietica fece numerose vittime, centinaia secondo alcune ricostruzioni, ma quegli eventi segnarono un momento di svolta per la storia del Kazakhstan e rappresentano un momento di identità fondante per il paese, che sarebbe diventato indipendente pochi anni più tardi. Nazarbaev salì al potere nel 1989, per poi essere eletto presidente la prima volta nel 1991 e riconfermato negli anni (spesso senza reali avversari e con percentuali oltre il 98% dei consensi), fino alle dimissioni del 2019.

Ma il mondo del 2019 sembra lontano anni luce: la distanza che esiste fra le élite di potere e la società civile è aumentata durante la pandemia, che ha fatto da detonatore a disagi di lunga data come la corruzione endemica, un benessere appannaggio di pochi, la mancanza di opportunità, di rappresentatività politica che è esplosa nei giorni della rivolta. In questo contesto è probabile che lotte intestine fra gruppi di potere siano emerse durante questi scontri violenti, così come il malcontento diffuso ha solo trovato il suo sfogo anche con toni nazionalistici, a metà fra orgoglio patriottico e rivendicazioni etniche.

In diverse parti del paese i manifestanti gridavano “fuori il vecchio”, riferendosi a Nazarbaev, cantavano l’inno nazionale, adottato nel 2006, e sventolavano la bandiera kazaka. Rispetto agli eventi del dicembre 1986, ora il 70% della popolazione è di etnia kazaka, rispetto al 40% di trent’anni fa, quando la componente russa era di poco inferiore (38%), risultato di politiche migratorie volute da Nazarbaev per far rimpatriare i kazaki da Cina, Mongolia e altri stati del Centro Asia. È proprio questa “nuova” generazione di kazaki insoddisfatti che ha costituito la parte principale delle proteste. Al netto delle diverse letture e sfumature, la realtà dei fatti è che ci sono state almeno 164 vittime, secondo le ultime cifre ufficiali fornite dal governo kazako e riprese da diversi media, delle quali 103 ad Almaty, oltre 2200 feriti e quasi 8000 persone arrestate.

Le repubbliche ex sovietiche di Caucaso e Asia Centrale

 

Geografia, e politica interna

La richiesta di aiuto inviata a Mosca era l’ultima carta rimasta in mano a Toqaev per risolvere una situazione che stava precipitando. Con la dipartita dei soldati americani dall’Afghanistan lo scorso agosto, la presenza militare statunitense, e quindi occidentale più in generale, nella regione centro-asiatica è praticamente nulla, e i tentativi di Washington per cercare accordi con i vicini Uzbekistan, Tajikistan o Kirghizistan finora si sono rivelati fallimentari, tanto che nelle consultazioni di Ginevra fra Russia e Stati Uniti si è parlato anche della possibilità concreta di un utilizzo delle basi militare russe in Asia centrale per operazioni di anti-terrorismo. Il messaggio è chiaro: l’intervento targato CSTO, avvenuto solo dopo esplicita richiesta della leadership kazaka, ha reso la presenza militare una questione di Eurasia.

 

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A Washington però la priorità è la Cina, altro grande osservatore assente e silente nell’intervento militare/operazioni di terra. L’Organizzazione per la cooperazione di Shangai (SCO), un organo intergovernativo ultra ventennale che coinvolge Russia, Cina, Kazakistan, ma anche Pakistan, India, Afghanistan e gli altri paesi dell’Asia centrale, non ha recitato alcun ruolo nello scenario kazako. Nonostante oltre 1700 chilometri di frontiera in comune fra Kazakistan e Cina, secondo paese importatore di petrolio kazako dopo l’Italia, Pechino ha un’influenza marginale. Le ragioni sono storiche e culturali, ma conta anche e soprattutto il ruolo della Russia, che condivide un confine di oltre 7600 chilometri, è affittuaria del cosmodromo di Baikanour, ed è pur sempre la madrepatria di circa un 20% della popolazione.

Dalla matrice terroristica al golpe fallito, dalla rivoluzione colorata all’intervento di agenti esterni, le ricostruzioni più disparate si sono accavallate per spiegare i tragici eventi dei primi giorni di gennaio. L’economia kazaka si basa sulla ricchezza di risorse energetiche e minerarie. Il paese sotto la guida di Nazarbaev è diventato esportatore di petrolio, uranio – il 40% del mercato globale è coperto dal Kazakistan -, grano e altre materie prime che lo rendono il paese più ricco e rivolto al resto del mondo tra le ex repubbliche sovietiche nella regione. Ma questa ricchezza è appannaggio di pochi gruppi di persone, tutte riconducibili a Nazarbaev e al suo clan familiare.

È difficile credere che il raddoppio del prezzo del GPL nell’ovest del paese sia stata la causa delle proteste generalizzate, anche perché prima dell’escalation violenta, fra il 4 e il 5 gennaio ad Almaty poi nel resto del paese, Toqaev aveva concesso una riduzione dell’aumento, prima di licenziare tutto l’esecutivo in una ricerca disperata di dialogo con la piazza per evitare di ricorrere all’aiuto esterno. Non è un caso che i principali scontri si siano verificati nella ex capitale, Almaty, la città più grande e dinamica del paese, con quasi 2 milioni di abitanti, vicino al Xinjang cinese, dove vive l’etnia turcofona di religione islamica degli Uiguri. Da sempre crocevia di commercio, persone, e idee, Almaty rimane la città principale del paese, benché non sia più capitale dal 1997. A posteriori sembra saggia la scelta di spostare la capitale nella steppa kazaka, più difficile da espugnare e meno permeabile ai conflitti, rispetto a una città situata a pochi chilometri dalle frontiere con Kirghizistan e Cina

Molto probabilmente, non esiste una singola causa per spiegare i disordini, che hanno canalizzato rabbia e malcontento diffusi. Allo stesso tempo, però, è sbagliato credere che i progressi raggiunti in questi trent’anni di indipendenza evaporino nel giro di poche settimane, perché il Kazakistan è riuscito a costruire solide relazioni politiche, economiche e culturali con il resto del mondo, sviluppando una politica multi-vettoriale, anche per liberarsi del rapporto stretto con la Russia.

A week is a long time in politics”, recita un famoso adagio attribuito all’ex Primo ministro britannico Harold Wilson. Ma quello che è accaduto in Kazakhstan nelle scorse settimane poco o nulla ha a che fare con la politica democratica, cui pure il paese si è ispirato ed ispira da quando è diventato indipendente per l’implosione dell’Unione Sovietica. Con i militari del CSTO che hanno iniziato a lasciare il paese, il nuovo governo kazako sembra confermare cambiamenti di mera facciata per proseguire come se nulla fosse, almeno a giudicare dalla nuova compagine governativa. Ci sono buone ragioni per credere che, nonostante l’intervento a guida russa del CSTO, non ci sarà alcun ritorno al periodo sovietico con una presenza russa in Kazakistan, perché non conviene a nessuna delle due parti.

 

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Il Cremlino ha mandato un segnale all’élite politica e agli organi di sicurezza per decidere da che parte stare, ma ha anche ribadito al resto del mondo, Stati Uniti in primis, che in Asia centrale Mosca rimane l’attore principale. Toqaev ha tutto l’interesse a non far tornare l’occupante dopo trent’anni, ma per garantire la stabilità e l’equilibrio nel paese deve assicurare la partecipazione della società civile in forme democratiche e favorire uno sviluppo economico in grado di distribuire la ricchezza. Più facile a dirsi che a farsi.