international analysis and commentary

Il caso Iran: il contagio tra interdipendenza e semi-isolamento diplomatico

17,199

Come era prevedibile, il Covid-19 non ha risparmiato l’Iran, diffondendosi anzi nel paese con una certa rapidità dopo il primo focolaio cinese, e con effetti devastanti. Troppo presto – e dati ancora eccessivamente frammentati – per comprendere come mai l’Iran sia stato colpito in tempi così brevi e con tali conseguenze. Molti fattori possono aver contribuito, mentre i dati ufficiali sono presumibilmente edulcorati e allo stesso tempo decisamente troppe sono le speculazioni da parte della comunità internazionale.

Intanto, è possibile constatare come i primi e più importanti focolai si siano registrati a Qom, nella città santa a poco a sud di Teheran, per ragioni che è allo stato attuale difficile da comprendere e valutare, diffondendosi poi in breve tempo in buona parte del paese.

Con una popolazione di oltre ottanta milioni, largamente concentrata nelle città, a loro volta caratterizzate da una vitalità economica espressa principalmente dal commercio e dalle relazioni umane, è facile intuire come la diffusione del virus abbia potuto così rapidamente crescere nel paese, facendo registrare numeri importanti in un breve lasso di tempo.

L’Iran è stato tra i primi Paesi ad essere investiti dal coronavirus.

 

Vi sono certamente alcune concause che hanno permesso di determinare l’evoluzione così drammatica e particolare dell’Iran: la concomitante impreparazione delle istituzioni nella gestione dell’emergenza – peraltro non dissimile da quanto visto nel resto del mondo – e l’iniziale titubanza nell’adottare misure di contenimento che avrebbero potuto ancor più danneggiare un’economia già fragile e resa oggi vacillante dalle sanzioni imposte dagli Stati Uniti – e, di fatto, dall’intera comunità internazionale.

Ha certamente contribuito alla diffusione del virus l’incessante traffico umano e di merci attraverso i porosi confini dell’Iraq e dell’Afghanistan, che rappresentano oggi, con il collasso dell’esportazione petrolifera iraniana, i due principali polmoni finanziari del commercio di Teheran. Nonostante i confini con i due paesi siano ufficialmente chiusi, i traffici mercantili e gli spostamenti delle persone da est a ovest continua in modo incessante, alimentando di conseguenza la diffusione dell’epidemia, portandola anche nelle aree più periferiche, dove il generalmente discreto sistema ospedaliero delle città iraniane è del tutto assente, determinando condizioni sanitarie gravissime.

Un gran numero di esponenti della politica iraniana è risultato positivo al Coronavirus, ed alcuni sono anche morti, dimostrando come la diffusione del virus sia ormai capillare anche all’interno delle cerchie più elevate del potere e delle principali città iraniane.

Le prime misure di effettivo contenimento attraverso l’adozione di decreti atti a limitare la mobilità della popolazione sono state estremamente tardive, aggravate probabilmente da una diffusione dei dati sul contagio e sulla mortalità non veritieri, che ha contribuito a ritardare il senso di emergenza della diffusione in atto. Concomitante problema, in Iran come in ogni altra parte del mondo, è stata la lenta progressione della società nel comprendere la gravità della situazione, con il perpetuarsi di comportamenti collettivi disastrosamente efficaci nella propagazione del virus.

Altro fronte è invece quello della politica estera e di sicurezza, dove l’impatto dell’emergenza ha generato atteggiamenti contrastanti da parte della Repubblica Islamica.

Nel momento in cui l’emergenza era già in atto e quando avrebbe richiesto uno sforzo sul piano domestico e regionale per impedire la diffusione del virus, infatti, l’Iran non ha diminuito la propria ingerenza politica in Iraq, esercitando anzi un’accresciuta capacità tanto sul piano militare (con attacchi ripetuti nel tempo contro le forze statunitensi ospitate all’interno delle installazioni militari irachene) quanto su quello politico, nell’intento di favorire la nomina di un primo ministro più vicino alle proprie posizioni. Tuttavia, questo attivismo ha finito per gonfiare una crisi politica che ha poi portato il presidente iracheno ad esprimere un candidato autonomo notoriamente favorevole al perseguimento di interessi considerati antitetici rispetto a quelli dell’Iran.

Gli Stati Uniti non hanno mostrato al tempo stesso alcuna apertura per un allentamento delle sanzioni verso l’Iran, determinando di fatto l’indisponibilità tanto di prodotti farmaceutici quanto di presìdi medici, contribuendo ad aggravare sul piano interno la già precaria gestione sanitaria dei numerosi pazienti infetti. Sebbene le sanzioni non includano i farmaci e i presìdi medici, il blocco del sistema bancario e della gran parte dei canali possibili per il trasporto di eventuali aiuti ha reso di fatto inefficace la possibilità di erogare all’Iran quel sostegno che la situazione avrebbe invece imposto.

Ciononostante, con una dichiarazione che ha lasciato tiepidi anche gli europei, l’amministrazione statunitense ha ufficialmente manifestato alla metà di marzo la propria disponibilità ad inviare aiuti all’Iran, dando consapevolmente avvio ad un controverso dibattito politico all’interno del sistema istituzionale della Repubblica Islamica. La Guida Alì Khamenei ha infatti rifiutato l’offerta statunitense, giudicandola una “manovra d’ipocrisia” e chiedendo al contrario la revoca delle sanzioni per permettere al paese un’autonoma capacità di gestione dell’emergenza.

Il “gran rifiuto” si è generato all’interno delle componenti conservatrici del potere politico iraniano, che considerano qualsivoglia apertura da parte statunitense come una pretestuosa manovra di propaganda politica atta da una parte a legittimare le sanzioni e dall’altra a costruire un’immagine non sincera delle intenzioni sul piano umanitario. Come spesso accade, inoltre, nella dialettica dell’antiamericanismo si è anche inserita la tradizionale paranoia cospirativa degli iraniani, che non ha mancato anche in questa occasione di manifestare nel dibattito politico i tratti essenziali della vulgata popolare, secondo la quale gli Stati Uniti avrebbero una responsabilità diretta nella propagazione del virus.

Anche sul piano della politica estera, a margine di qualche blanda manifestazione di sostegno verbale, l’Iran ha goduto di un modestissimo aiuto pratico nella gestione dell’emergenza, vedendo in tal modo acuirsi i termini della narrativa politica domestica soprattutto in seno agli schieramenti conservatori.

Le critiche agli Stati Uniti si sono in tal modo assommate a quelle verso l’Europa, nell’ottica di una strategia politica squisitamente domestica, che non tarderà tuttavia a manifestare i suoi effetti anche sul piano delle relazioni internazionali.

Il governo iraniano, infine, per il tramite del Ministro degli Esteri Javad Zarif, ha invece chiesto ufficialmente il sostegno del Fondo Monetario Internazionale, per un totale di 5 miliardi di dollari, destando perplessità di non poco conto soprattutto sul piano della politica domestica. È infatti la prima volta dagli anni Sessanta che l’Iran presenta una richiesta di questo genere al FMI, rendendosi di fatto implicitamente disponibile a quella trasparenza contabile che l’erogazione da parte del Fondo renderebbe necessaria, aprendo all’incognita della effettiva capacità di accettazione di tali vincoli da parte delle istituzioni iraniane.

Una mossa che in molti leggono, anche al di fuori dell’Iran, come un tentativo di contrastare il ruolo delle formazioni politiche conservatrici attraverso un impegno vincolante del paese con la comunità internazionale. L’obbiettivo resta sempre quello di aprire la strada a una nuova fase negoziale di più ampia portata.