I sauditi e gli alleati del Golfo, l’Iran, e l’America di Trump
Il parziale ritorno dell’Iran sulla scena internazionale sta condizionando, forse più del previsto, anche i rivali di sempre di Teheran: i Paesi che compongono il Consiglio di Cooperazione del Golfo (l’organizzazione che riunisce i sei stati arabi della sponda meridionale del Golfo Persico). Lo dimostra, di recente, il viaggio del Ministro degli esteri kuwaitiano Sabah Khalid Al Sabah a Teheran lo scorso gennaio, e la successiva missione del presidente iraniano Hassan Rohani in Kuwait e Oman in febbraio.
Si tratta di un’evoluzione che allarma l’Arabia Saudita e soprattutto gli Emirati Arabi Uniti, di fatto i veri dominus del Consiglio: secondo loro, questi incontri sono delle vere e proprie defezioni. La riunione del 30 marzo scorso dei ministri degli Esteri del Consiglio, che avrebbe dovuto prevedere la discussione di una nuova strategia di contatto con Teheran, si è conclusa con un nulla di fatto. Il rappresentante del Kuwait è intervenuto parlando del recente viaggio in Iran, incassando tuttavia la più netta chiusura da parte dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti. Questi hanno invece messo a verbale l’invito all’Iran a conformarsi alle regole dettate dalle Nazioni Unite, soprattutto per quanto concerne il buon vicinato e la non intromissione negli affari degli stati terzi – un riferimento a presunte azioni iraniane atte a sobillare le minoranze sciite in Bahrain e in Arabia Saudita.
La fragilità del Consiglio di Cooperazione del Golfo
Riyad ha tentato una sorta di “chiamata alle armi” all’interno del Consiglio nel 2014, che non ha però superato l’impatto dei mutamenti politici ed economici regionali, destando preoccupazione all’interno del sodalizio. Il progetto di trasformare il Consiglio in una sorta di alleanza militare, finalizzata al contenimento dell’Iran e al coordinamento militare in Yemen (teatro in cui i sauditi sono pesantemente coinvolti senza, ad oggi, una facile via d’uscita), è stato accolto con un imbarazzante silenzio da parte degli altri paesi membri, e poi accantonato.
L’Oman ha storicamente difeso la sua posizione di indipendenza rispetto alle diatribe regionali che hanno sempre più complicato le relazioni tra Iran e Arabia Saudita. Ciò gli ha fruttato ripetute accuse da parte di Riyad e Abu Dhabi di simpatie e complicità con Teheran, ad esempio nel sostegno ai ribelli Houthi dello Yemen.
Il Qatar di Hamad bin Khalifa Al Thani cercò tra il 2010 e il 2011 di definire una nuova politica di sostegno regionale alle formazioni islamiste non radicali, tra cui in modo particolare la Fratellanza Musulmana. Le ben poco velate minacce dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti convinsero infine il sovrano ad abdicare in favore del figlio Hamad nel 2013.
Il Kuwait ha mantenuto una posizione di basso profilo dal 1991, quando subì l’invasione irachena che, a sua volta, ha portato indirettamente a quella americana dell’Iraq stesso nel 2003, a tutto vantaggio delle ambizioni regionali dell’Iran – fortemente presente sulla scena irachena dal collasso del regime di Saddam Hussein. Solo recentemente il Kuwait ha abbandonato la tradizionale posizione di defilata estraneità rispetto al dualismo tra Riyad e Teheran, decidendosi per una maggiore apertura nei confronti dell’Iran.
Il Bahrain è una sorta di provincia satellite dell’Arabia Saudita, solo nominalmente indipendente e governata da un sovrano costretto a barcamenarsi tra le pressioni dell’ingombrante vicino sunnita e quelle di una società a maggioranza confessionale sciita. Per imporre un equilibrio – tanto delicato quanto fragile – il paese è stato di fatto occupato militarmente da Riyad nel 2011, nel silenzio dei media internazionali.
L’Arabia Saudita è transitata attraverso una mutazione profonda del proprio rapporto con l’Iran, passando dal pragmatismo di Re Abdullah alla più totale chiusura di Re Salman. La firma dell’accordo internazionale sul nucleare (2015) ha ridestato a Riyad i timori profondi che erano stati sopiti nei lunghi anni dell’isolamento di Teheran. La tensione ha portato a un incremento esponenziale dell’instabilità nella regione e in parte alla conflittualità aperta in Siria e in Yemen. Un segnale moderatamente incoraggiante giunge quantomeno dall’accordo pragmatico sui pellegrinaggi alla Mecca, sospesi dall’Iran dopo la strage del settembre 2015 (quando oltre 2000 pellegrini, tra cui numerosi iraniani, morirono alla Mecca nella calca provocata da un mutamento del traffico imposto dal passaggio di un membro della famiglia reale saudita), e nuovamente approvati per il 2017 a conclusione di un lungo e difficile negoziato bilaterale.
Gli Emirati Arabi Uniti, infine, rappresentano oggi probabilmente l’attore più deciso nel contrasto all’Iran e alla Fratellanza Musulmana, ma anche al tempo stesso ad Al-Qaida e allo Stato Islamico, nell’intento di salvaguardare la sicurezza ma anche – e soprattutto – la continuità delle monarchie del Golfo. L’azione degli Emirati è articolata e complessa: dal sostegno al generale Khalifa Haftar in Libia – per il tramite dell’Egitto – sino al finanziamento di una significativa quota della guerra in Yemen, dove tuttavia ha ritirato le proprie unità militari dopo avere subito ingenti perdite. Al radicalismo politico della capitale Abu Dhabi fa da contraltare il pragmatismo economico di Dubai – principale città commerciale degli Emirati – che con l’Iran continua a fare affari, anche nell’ottica di ripianare il proprio debito con Abu Dhabi. Un atteggiamento seguito dagli emirati più piccoli, anche grazie alla lontananza dai riflettori.
La guerra in Yemen ha infine fatto emergere profonde divergenze anche tra gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita, soprattutto nell’ambito dell’ambiguo rapporto di quest’ultima con le formazioni di Al-Qaida. Abu Dhabi intende combattere l’organizzazione in modo frontale, accusando invece Riyad di pericolose collusioni che minano la capacità militare della coalizione e rischiano di compromettere il futuro politico del presidente Hadi.
Guardando alle posizioni dei paesi membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo, emerge una valutazione alquanto pessimistica circa le reali possibilità del sodalizio di rappresentare un fronte unito contro le due principali minacce esistenziali percepite dalle monarchie del Golfo: l’Iran e la Fratellanza Musulmana. Il Consiglio appare quindi sempre più come un’emanazione primaria degli interessi sauditi ed emiratini, dove al contrario le posizioni degli Stati minori risultano pressoché neutre se non addirittura contraddittorie.
Il viaggio di Mohammed bin Salman negli USA, e il dibattito pre-elettorale in Iran
L’avvio della presidenza Trump, con la promessa di abbandonare la prudente “dottrina Obama” che aveva riportato l’Iran sul palcoscenico internazionale, ha rassicurato in particolar modo i sauditi. La roboante retorica di Trump sull’Iran, tuttavia, non ha prodotto finora alcun risultato tangibile per Riyad, che vorrebbe da Washington soprattutto un rafforzamento del piano sanzionatorio.
L’Arabia Saudita ha anche registrato una certa freddezza degli Stati Uniti nei confronti della Vision 2030, l’ambizioso piano di riforme per rinnovare l’economia e ridurre la dipendenza dal petrolio. Il sovrano ha deciso di andare a cercare finanziatori in Asia – con un lungo viaggio di circa un mese – data la freddezza dei mercati occidentali sulla sua strategia di indipendenza energetica.
Il figlio del sovrano saudita, Mohammed bin Salman, ha invece intrapreso un viaggio negli Stati Uniti alla metà di marzo, incontrando Donald Trump e cercando di dare grande risalto mediatico alla visita. L’obiettivo della missione a Washington è stato quello di ri-definire posizioni comuni contro l’Iran: queste si sono tuttavia limitate, a livello ufficiale, al congiunto riconoscimento di Teheran quale “minaccia regionale alla sicurezza”. Il risultato del viaggio è stato insomma limitato a una mera presa di contatto.
In Iran, al tempo stesso, la politica torna nel pieno della sua attività per le elezioni presidenziali del prossimo giugno, dopo oltre tre settimane di sospensione per le celebrazioni del nuovo anno. Paradossalmente, gli Stati Uniti e Trump trovano solo uno spazio marginale nelle prime battute della campagna, perlopiù concentrata nel commentare in modo tutto sommato modesto la recente azione militare americana contro la Siria.
L’élite politica iraniana, sia in ambito conservatore che in quello della maggioranza pragmatica, non prevede un vero peggioramento nel rapporto con gli USA e considera Trump un attore politico squisitamente razionale, non interessato quindi ad innescare la pericolosa miccia dell’escalation con l’Iran in Medio Oriente. Più di un esponente politico considera anzi il presidente degli Stati Uniti una risorsa per disinnescare i non pochi problemi nell’esecuzione degli accordi sul nucleare: interessato sì a rivedere il patto con l’Iran, ma con l’obiettivo di diminuire i vantaggi commerciali dell’Europa piuttosto che punire Teheran.
Proprio su quest’ultimo punto si concentra l’interesse non solo della politica iraniana ma, di fatto, dell’intera comunità internazionale, che attende con una certa impazienza il rinnovo della sospensione delle sanzioni all’Iran da parte del presidente degli Stati Uniti, da esercitarsi necessariamente entro la scadenza del prossimo maggio. Sarà quest’atto, più di ogni altro, ad indicare con chiarezza l’indirizzo della politica americana verso l’Iran nei prossimi anni.