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I paradossi indiani

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L’India si scopre come un paradosso: molti se lo sentono dire quando mettono piede nel sub-continente, nell’immenso e complesso Paese che ha preso il posto della Cina non solo come Stato più popolato al mondo, ma anche come focus emergente dello scenario globale. Il paradosso di oggi è questo: non si è mai parlato tanto come ora di India come potenza economica, motore tecnologico, riferimento diplomatico, centro culturale. L’India ha mandato una navicella sulla Luna. L’India è corteggiata come non mai. Eppure mai come ora la sua democrazia mostra segni di preoccupante indebolimento.

Il sub-continente indiano dal satellite

 

La sfida del partito di Modi

La sfida della repubblica federale che è stata in passato considerata il gioiello della corona imperiale inglese è sempre stata quella di integrare le sue quasi incommensurabili moltitudini – distinte tra loro per differenze religiose, etniche, sociali e linguistiche – nel sistema politico di uno Stato moderno. La società indiana si è confrontata, spesso con violenza, sulla necessità o meno di una gerarchia di privilegi civili nel rapporto tra individui, gruppi e istituzioni. Nelle varie tinte del nazionalismo indiano che hanno dato vita allo stato post-coloniale si è sempre distinta la componente indù, espressione del 75-80% della popolazione, e al suo interno la corrente che più si richiama al passato e alla tradizione culturale e religiosa dell’induismo, vista come vero e proprio cardine della vita pubblica. Unico cardine: questa corrente considera le garanzie costituzionali di laicità e protezione delle minoranze come un impedimento alla compiuta integrità dello stato indiano. Proprio per prevenire il sopravvento di una visione simile, la Costituzione è stata ulteriormente emendata negli anni ’70 per definire l’India “sovrana, socialista, secolare e democratica”, e per specificare che la fratellanza è il pilastro della sua integrità: prevalse così allora l’idea di un’India egualitaria.

Il secondo mandato da Primo Ministro di Narendra Modi, a partire dal 2019, in questo senso ha marcato una svolta, in un processo già da tempo in incubazione: la narrativa nazionalista-suprematista indù dopo una lotta decennale ha conquistato l’egemonia sul discorso pubblico. Il risultato più evidente è stata l’adozione di politiche direttamente discriminatorie: le più evidenti ai danni della minoranza musulmana, duecento milioni di persone. Alle spese della laicità dello Stato certo, ma soprattutto ai danni dei principi costituzionali di base.

Allo stesso tempo il Partito del Popolo Indiano (BJP) di Modi, sotto l’influenza dell’Associazione Nazionale dei Volontari, movimento politico-religioso mentore del BJP, favorevole alla trasformazione dell’India in uno stato etnico indù, ha rafforzato la sua presa sulla cosa pubblica. L’obiettivo è perfezionare l’integrazione politica degli indiani non utilizzando i meccanismi della democrazia e della società aperta, ma attraverso un apparato accentrato e repressivo posto sotto il proprio controllo, sia nei confronti di individui e gruppi che territorialmente, imponendosi sulle istituzioni dei singoli Stati del federalismo indiano. Per costruirlo e legittimarlo, come da manuale, Modi ha usato le tensioni interetniche emerse in Kashmir (l’unico Stato indiano a maggioranza musulmana) e altrove. Ma ha anche coltivato uno spirito che già prendeva forma nella società.

 

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Un altro paradosso? Di fronte alla radicalizzazione degli strumenti di controllo politico, il Primo Ministro è più popolare che mai. Non solo: l’élite del Paese, quella culturale, quella istituzionale e anche quella mediatica, sembra aver aderito convintamente a questo processo ideologico finanziato da settori importanti del capitalismo nazionale. Dai giornali locali al parlamento quella narrativa si afferma, condita di caratteri razzisti, con l’approvazione entusiasta della classe politica al potere. Chi vuole fare carriera, deve adottarla. Chi non la adotta può venire arrestato, anche solo per un tweet. Perfino la Corte Suprema del Paese, l’istituzione forse più potente del mondo nel suo genere, con attribuzioni più estese di quella americana, inclusa la facoltà di annullare emendamenti costituzionali, sembra aver abdicato al compito di proteggere i diritti civili: negli ultimi anni ha lasciato senza risposta per anni vari casi “politicamente sensibili”, da quello sulla carta d’identità biometrica, al sistema di finanziamento dei partiti, alle decine di restrizioni territoriali all’accesso di internet (l’India negli ultimi anni è diventata leader mondiale anche in questo) decise a discrezione del governo – privilegiando invece altre questioni meno problematiche.

Sostenitori di Narendra Modi

 

Evoluzione politica e calcolo strategico

Uno degli slogan preferiti da Modi è: “l’India è la madre di tutte le democrazie”. Ci si può chiedere se l’attuale evoluzione anti-liberale e anti-democratica del Paese sia figlia di pregressi caratteri socio-culturali, o sia invece risultato di contingenze internazionali attuali. Come l’elezione di Donald Trump, che ha dimostrato che anche in una democrazia apparentemente grande, plurale e rodata siano a disposizione gli strumenti per mettere le istituzioni pubbliche sotto il controllo permanente dell’esecutivo, centralizzare lo Stato a danno del pluralismo e delle minoranze. O come la consapevolezza che il sistema internazionale non sarà in grado di opporsi, o sanzionare l’evoluzione interna del Paese, perché punteggiato di attori decisi a far passare (strumentalmente) principi di “non ingerenza”, oppure impegnati a loro volta nell’indebolimento dei principi liberali. D’altronde l’India fa parte del fronte che critica la scarsa credibilità del sistema internazionale attuale a guida occidentale: giusta o sbagliata che sia la critica, offre di certo l’occasione per non disturbarsi a seguirne i principi.

Al di là di questo, si registra un’evoluzione inattesa nel tessuto socio-culturale del Paese: tra le componenti nazionaliste-suprematiste indù c’è un imbarazzo sempre crescente e meno nascosto per l’associazione tra l’India e la non-violenza, che grazie a Gandhi divenne fondativa nella liberazione coloniale. Si sostiene così che l’India non sia stata presa sul serio, nei decenni del suo egualitarismo, perché percepita come pacifica, mansueta – mentre allo stesso tempo gli Stati Uniti avrebbero allacciato rapporti profondi con i detestati vicini musulmani del Pakistan proprio perché preoccupati dell’aggressività di uno Stato “che si faceva rispettare”, cementato da una religione e una società omogenee. E’ una lettura che non regge alla prova dei fatti, ma funziona in chiave di affermazione nazionale, considerato anche il diffuso spirito di rivincita nei confronti della sottomissione coloniale.

E poi c’è l’esperienza di Vladimir Putin, che è riuscito a trasformare uno Stato semi-liberale in una dittatura fascisteggiante classica, etnicista, guerresca, dogmatica, di fronte agli occhi dell’Europa intera. Prima dell’invasione dell’Ucraina, gli Stati d’Europa non avevano esitato per ragioni strategiche ma anche per puro interesse di bottega ad allacciare accordi di ogni tipo con la Russia putiniana. Che aveva già compiuto tutti gli eccessi che le vengono rinfacciati adesso. Modi può dunque ritenere che il valore strategico dell’India – oggi alle stelle, come alternativa geopolitica alla Cina – renda i partner occidentali molto meno disposti a sindacare sulla democrazia o il rispetto dei diritti civili nel suo Paese: mano libera.

 

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Il dividendo politico offerto da questa svolta è notevole. Si identifica la maggioranza indù come soggetto politico unico e specifico, e il BJP si auto-proclama suo solo rappresentante e difensore: difensore perché quella maggioranza va intesa come un gruppo minacciato, bistrattato e invidiato “dagli altri”. Finora maltrattato e non riconosciuto nei suoi diritti dalla Costituzione e dallo Stato, e dunque giustificato nelle sue rivendicazioni. Ciò presuppone di conseguenza la creazione di un “altro”, un “diverso”, un “nemico”. Possono essere i musulmani, i laici, gli intellettuali… O George Soros, perché no: il BJP ha prodotto una pubblicità elettorale in cui il Partito del Congresso, il più grande dell’opposizione, era rappresentato come un film prodotto da Soros. La maggioranza, che per di più è al governo, è dunque “vittima”: un mondo al contrario di cui Modi incarna il giusto rovesciamento.

Il nazionalismo indù è coltivato dal partito di governo e dai suoi alleati in ogni possibile maniera: ad esempio con la presenza della denominazione “Bharat” al posto di “India”. E’ uno dei tanti nomi del sub-continente, che appartiene ovviamente alla tradizione indù: “India” è il nome coloniale del nostro Paese, dovrebbe essere vietato, dicono molti esponenti del BJP – anche se si tratta di un appellativo antico, derivato dal grande fiume che oggi scorre in territorio pakistano, non certo inventato dagli inglesi. Oppure c’è l’enorme mappa murale nazionale dell'”India indivisa” scolpita nella pietra del nuovo parlamento, che include luoghi oggi appartenenti a Bangladesh, Nepal, Pakistan o Afghanistan, ma secondo i nazionalisti “patrimonio dell’India storica”. Chiunque passi da Via dei Fori Imperiali a Roma sa bene quali significati indiretti possa veicolare una mappa del genere.

Akhand Bharat, l’India indivisa, sui muri del parlamento di Delhi

 

L’ora della religione

In effetti, l’uso della storia e della tradizione culturale indù a fini politici è evidente ovunque, anche nelle migliaia di film che gli indiani guardano avidamente, ed è debordato anche in nuove costruzioni cariche di simbolismo. Vallabhbhai Patel, figura prominente del nazionalismo indiano e della lotta per l’indipendenza, è ancora più prominente da quando nel 2018 gli è stata innalzata una statua di quasi duecento metri d’altezza. La “Statua dell’Unità” (sappiamo che poco dopo l’indipendenza la ex colonia britannica si divise tra India, Pakistan e Bangladesh – evento che il nazionalismo indù deplora) che lo raffigura è la più alta del mondo, il quadruplo di quella della Libertà a New York – in precedenza il record era di un Buddha cinese. I contadini della zona hanno contribuito alla sua erezione donando i loro oggetti di ferro. Dal 2022 anche Shiva, tra le principali divinità indù, ha una statua gigantesca – un po’ più bassa dell’altra, forse perché è rappresentato seduto. Le statue colossali innalzate nell’ultimo ventennio sono una trentina.

L’Uttar Pradesh è uno Stato fondamentale nella politica indiana. Vi abitano circa 240 milioni di persone, quindi è il più popoloso del Paese, ed è ormai la roccaforte del BJP, che lo governa dal 2017, cioè da quando Modi in una storica campagna elettorale lo strappò ai due partiti socialisti che se lo disputavano in alternanza da decenni – per consegnarlo al suo fedelissimo Yogi Adityanath, che da due mandati lo governa con maggioranza assoluta. L’Uttar Pradesh costituisce dunque uno dei fuochi principali della strategia politico-elettorale di Modi, e non è un caso che di recente proprio qui sia stato inaugurato uno smisurato Tempio di Rama, in quello che si ritiene il suo luogo natale: un complesso in cui onorare la divinità indù paragonato al Vaticano per importanza religiosa e giro economico previsto. In quel luogo sorgeva anche, dal XVI secolo, una grande moschea, distrutta nel 1992 a picconate da una folla di 150mila fanatici indù. Nei disordini che seguirono morirono migliaia di persone in tutta l’India.

Poco importa: la retorica del ritorno alla mitica età dell’oro del “regno di Rama” è centrale nella narrativa del BJP. Rama è una figura popolarissima – fu rappresentato in una serie tv di fine anni ’80 per vedere la quale, di domenica mattina, le altrimenti brulicanti strade indiane letteralmente si svuotavano. Tradizionale incarnazione dell’uomo giusto, devoto e misurato, sogno dei genitori per i figli e modello delle mogli per i mariti, è stato trasformato dal nazionalismo indù nel vendicatore delle invasioni musulmane dell’India, nel Medioevo, in seguito alle quali si dice (non ci sono prove certe) che fosse stata costruita una moschea al posto di un tempio sul suo luogo di nascita. Quella distrutta nel ’92.

Simili cortocircuiti storico-religiosi in India sono decine, con strascichi legali infiniti che aumentano la tensione. E sono sfruttati politicamente: Modi è corso a inaugurare il Tempio di Rama, il 22 gennaio, con il secondo e il terzo piano ancora in cantiere. In effetti manca poco alle elezioni che si terranno tra aprile e maggio in cui il premier cercherà di ottenere un terzo mandato, presentandosi come unico garante della tradizione culturale e religiosa indù, ossia di un blocco elettorale potenzialmente invincibile. In dicembre, all’inaugurazione dello Swarved Mahamandir, il colossale tempio dedicato al Vihangam Yoga nella città santa di Varanasi sul Gange, presentato come il luogo di meditazione più grande del mondo, Modi ha assicurato che “il governo, la società e gli uomini santi stanno lavorando insieme per la ricostruzione dell’India, illuminati dall’ispirazione divina”. Con queste credenziali, tutto lascia presupporre che ce la farà a vincere, anche se l’opposizione si è raggruppata in un cartello unitario.

Lo Swarved Mahamandir

 

Il vantaggio offerto dalla narrativa nazionalista-suprematista include infine anche l’ultimo paradosso, per cui ogni tentativo di condizionamento politico ufficiale dall’esterno fornirebbe la “prova” ai nazionalisti che l’Occidente o il resto del mondo vuole sul serio reprimere la nuova potenza dell’India. Un argomento che funziona bene: specialmente quando il panorama mediatico nazionale è schierato o non è libero, le voci dall’estero non hanno speranza di prevalere, né di influire – ma saranno invece controproducenti. Se vorranno, toccherà quindi agli indiani trovare il modo di cambiare strada.

 

 


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