I palestinesi senza più un’identità
A Ramallah, capitale de facto dello Stato di Palestina, il Consiglio Legislativo non viene convocato da 11 anni. Mahmoud Abbas governa per decreti: in virtù di un mandato scaduto nel 2010. Si potrebbe dire che i palestinesi sono allo sfascio, se non fosse che “i palestinesi” non esistono neppure più. Se non emotivamente. Se non come un’icona, come la bandiera di Che Guevara.
A differenze e divisioni interne di sono saldate nuove differenze: tra i palestinesi della diaspora e i palestinesi in Palestina non c’è mai stata una differenza sola, perché le diaspore sono sempre state più di una; e un palestinese in Libano, privo di diritti, non ha mai avuto molto in comune con un palestinese in Giordania, per esempio, che ha invece gli stessi diritti di un giordano. Inoltre, in Palestina, i palestinesi non vivono più nella West Bank e a Gaza: vivono, più esattamente, nella West Bank oppure a Gaza. O a Gerusalemme. O in Israele. Sono molto diversi: anche giuridicamente diversi. Ma poi, ancora, sono divisi tra Hamas e Fatah, tra i figli e i padri, e le figlie e i figli, tra le città e le aree rurali, i rifugiati e i non rifugiati. Tra Ramallah e tutto il resto. E naturalmente: tra i ricchi e i poveri. In Palestina c’è di tutto, ormai, tranne “i palestinesi”.
Ed è in larga parte un effetto della strategia israeliana. Delle restrizioni alla libertà di movimento, e più ancora un effetto di come è evoluta l’occupazione, che oggi si basa su strumenti in parte nuovi – e richiede, quindi, resistenze di tipo nuovo. Se a Hebron è una battaglia casa per casa, ed essere arrestati per una zuffa con un colono fa parte del gioco e tiene alta l’attenzione, a Gerusalemme, al contrario, essere arrestati significa essere trasferiti via di forza: che è l’obiettivo di Israele. E quindi, in una certa misura, i palestinesi hanno strategie diverse perché è necessario avere strategie diverse.
Ma comunque, quali che siano le sue cause, la crisi dei palestinesi – uno indifferente all’altro o anche, più spesso, uno contro l’altro – è una crisi reale. Di cui è assolutamente proibito discutere, però: perché per i palestinesi è sempre soltanto colpa di Israele. Tutto, appunto, deriva dall’occupazione, come se non ci fossero stati errori degli stessi palestinesi. E quindi, vieni subito zittito: la priorità, ti dicono, è la fine dell’occupazione. Anche se nell’attesa, è lo sfascio generale.
Certo, anche gli attivisti internazionali hanno ampie responsabilità in tutto questo. Il processo di Oslo, con gli accordi del 1993, è stato un errore, se non proprio una trappola, come è oggi largamente riconosciuto: sostanzialmente, ha consentito a Israele di negoziare, negoziare, negoziare per anni, e intanto costruire insediamenti ovunque. Quella che il mondo ancora chiama Gerusalemme Est, per esempio, e ancora propone come capitale del futuro stato palestinese, è ormai per l’86% sotto il diretto controllo di Israele. Quella che il mondo ancora chiama “Gerusalemme Est”, in realtà non esiste più.
Ma Oslo ha avuto anche un’altra conseguenza: la scomparsa della società civile palestinese. Che un tempo, invece, era la più forte del mondo arabo. Perché a Oslo, l’idea è stata oliare la pace con lo sviluppo economico. Un’idea più che ragionevole, in teoria. Ma in concreto, le centinaia e centinaia di ONG che si sono subito catapultate a Ramallah si sono tutte organizzate con vertici stranieri e manovalanza locale. In Palestina gli stranieri decidono: i locali obbediscono. E il risultato, quindi, è che pro capite i palestinesi sono ora i primi destinatari al mondo di aiuti internazionali: ma tutto questo non solo non ha generato alcuno sviluppo – cosa d’altra parte difficile, sotto occupazione, e con un’economia subordinata a quella di Israele. Ma ha anche abituato i palestinesi a ricevere, invece che costruire. A eseguire, invece che pensare. In Palestina, le ONG non sono un mezzo di sviluppo. Sono solo una forma di welfare. Attraverso le ONG, si mantiene un’illusione di sviluppo. Un’illusione di progresso. Ma l’economia palestinese è un’economia che si limita a consumare beni prodotti altrove, e comprati con prestiti, stipendi delle ONG, e stipendi guadagnati in Israele. Non è un’economia. E senza le ONG, si fermerebbe in un minuto.
Questo meccanismo è utile a Israele, naturalmente, che così taglia i costi dell’occupazione, non asfalta strade, non attrezza scuole, ospedali, tutte cose a cui è obbligato dalla IV Convenzione di Ginevra: tanto, ci pensano le ONG. Ma è utile anche a Fatah e Hamas, che ormai non sono che comitati d’affari. Israele controlla le frontiere. E questo significa che ogni attività economica passa da un’intesa con Israele. Passa, cioè, da chi è al potere. Ed è così che Fatah e Hamas, in questi anni, si sono assicurate monopoli e rendite di ogni tipo: perché mentre sul palco va in scena il conflitto, dietro le quinte, in realtà, è tutto uno scambio di favori. Tra israeliani e palestinesi, o meglio, tra chi governa gli israeliani e i palestinesi, oggi non ci sono negoziati, è vero: ma non c’è neppure guerra.
Per Israele la priorità è l’Iran. E per Fatah e Hamas, è stare al potere. Nient’altro. Ormai, è così che bisogna leggere le notizie degli ultimi scontri e morti. Sia a Gaza sia nella West Bank. Non in relazione a Donald Trump che sposta un’ambasciata, Benjamin Netanyahu che legalizza un avamposto: non in relazione ai rapporti con Israele, ma in relazione agli equilibri tra Fatah e Hamas. Alla rivalità tra Fatah e Hamas. E alla battaglia, che sarà presto battaglia vera, per la successione all’82enne Mahmoud Abbas. Netanyahu usa la guerra per sviare l’attenzione dalle inchieste dei magistrati sui suoi conti correnti, ma Fatah e Hamas sono uguali. Usano i palestinesi. Infiammano e frenano proteste: per tutto, tranne che per una strategia di resistenza.
Avrei potuto scrivere tutto questo tra virgolette, citando i tanti attivisti che ho incontrato tante volte. E che mi hanno ripetuto tutti le stesse cose. Ma se critichi Fatah e Hamas, le ritorsioni sono immediate. Vieni licenziato. O anche arrestato. Non ti rilasciano una licenza. Tuo figlio perde la borsa di studio. In Palestina non c’è più libertà di parola. Israele ha tolto ai palestinesi la terra. Ma Fatah e Hamas gli hanno tolto tutto il resto. I palestinesi hanno tutti paura di parlare. Poi, se provi a dirlo agli attivisti internazionali, che potrebbero parlare senza pericolo, ti senti rispondere: Ma la colpa è di Israele. La priorità è la fine dell’occupazione.
E invece l’occupazione, qui, non è più solo israeliana. Non sono in corso negoziati, oggi, anche perché tutti, ormai, a quanto sembra, concordano sullo Stato unico. Questo stato unico che in effetti, è già una realtà, in un certo senso, perché Israele ha costruito ovunque: non c’è più spazio neanche fisico per uno stato palestinese. E se il problema, come è noto, è che Israele non ha la minima idea di come gestire questo stato unico, che o sarà uno stato ebraico o sarà uno stato democratico, niente viene mai detto dell’analoga vaghezza dei palestinesi. Che esattamente come gli israeliani, sono convinti che tanto, nel giro di due generazioni, saranno la maggioranza. La larga maggioranza. E quindi, perché discutere di minoranze?