international analysis and commentary

I fratelli Koch versus Barack Obama

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Interpretare una campagna elettorale in America: osservare cosa si dice, chi lo dice, come lo si dice; come reagiscono i protagonisti della competizione alle difficoltà e alle opportunità del contesto politico; come ci si organizza per far arrivare il giusto messaggio al giusto target; analizzare i metodi di mobilitazione di fan e sostenitori; andare a vedere chi ci mette i soldi e perché si è convinto a farlo. Si tratta di un sistema politico nel quale “anybody can play”, anche con formule lasche o indirette di partecipazione – per esempio affiliandosi a un singolo candidato, magari per un solo ciclo elettorale e senza alcun bisogno di essere uomo o donna “di partito”; oppure sostenendo un advocacy group che si organizza per far emergere nel dibattito elettorale una specifica issue – i giocatori cambiano molto spesso, o quanto meno si alternano in uno schema a geometria variabile dove pochi restano e molti vanno e vengono (dal business alla politica e viceversa, dalla società civile alla politica, dal mondo militare all’amministrazione, dalla politica verso i think tank o verso i gruppi di interesse).

I fratelli Koch, David e Charles, sono in gioco da più di trent’anni, instancabili finanziatori delle battaglie politico/culturali a sostegno dello small government, della riduzione dell’imposizione fiscale e della deregolamentazione dei mercati. In queste elezioni di midterm del 2010 sono divenuti uno degli strumenti della controffensiva repubblicana (pur essendo loro dei Repubblicani, Gopers, atipici). Così come George Soros (che da solo immette nel sistema politico americano circa 100 milioni l’anno) e il Big Labor – ovvero le principali centrali sindacali, dall’AFL-CIO alla SEIU – rappresentarono il motore “economico” del partito Democratico nelle elezioni del 2006 e del 2008. Il conflitto con l’amministrazione Obama si è reso esplicito – per quanto ce ne fosse bisogno – grazie al discusso ritratto dei fratelli Koch apparso recentemente sul New Yorker.

David e Charles Koch dirigono le Koch Industries: secondo Forbes, la seconda impresa del paese – il cui main business è il petrolio: raffinazione e oleodotti. David, il più attivo nell’arena pubblica, è l’uomo più ricco di New York, oltre a essere uno dei principali benefattori della sua città: quasi 500 milioni di dollari spesi in 10 anni per il sostegno all’arte, la ricerca medica e l’istruzione. L’urgenza di donare sarebbe nata nel 1991, quando Koch sopravvisse – l’unico della prima classe – a un incidente aereo avvenuto a Los Angeles. Le vicende personali dei due sono affascinanti e a tratti romanzesche (e un po’ romanzate), soprattutto nel sostegno alla diffusione di cultura e alla costruzione di organizzazioni grassroots.

Nel 1980, David fu candidato alla vicepresidenza degli Stati Uniti per il Libertarian Party (nel quale militò anche Ron Paul, candidato alle primarie repubblicane del 2008): era dal 1916 che un terzo partito non riusciva a presentare le proprie liste in tutti gli stati dell’Unione (in quell’occasione ci era riuscito il Partito Socialista). I libertarians ottennero poco più dell’1%, che però fu sufficiente a far conoscere la piattaforma del loro partito al pubblico americano: laissez-faire, deregolamentazione, difesa delle libertà civili, non interventismo in politica estera. Lo spirito di allora vive oggi nel Cato Insitute, il think tank presieduto da Edward Crane, uno dei fondatori del Libertarian Party. Nel 1984 David Koch lasciò il partito, fornendo di lì in poi il suo sostegno ad alcuni candidati repubblicani, ma soprattutto a un arcipelago di gruppi, associazioni, think tank e organizzazioni non-profitimpegnate nella battaglia politica e delle idee.

Ma perché i Koch sono così importanti e così interessanti? In fondo, non sono e non saranno né i primi né gli ultimi miliardari/cittadini americani decisi a impegnarsi “in politica” o a sostenere questo o quel partito. I due fratelli sono però da sempre degli innovatori: lo sono anche oggi avendo intuito, tra i primi, le grandi potenzialità del Tea Party, sul quale (o meglio, sui quali: i tanti Tea Party in giro per il paese) hanno già investito, in un anno e mezzo, circa 100 milioni di dollari.

I Koch hanno per primi compreso come la battaglia politica contro la coalizione del New Deal e i vecchi Repubblicani alla Nixon dovesse passare dalla costruzione di un’adeguata triangolazione fra istituzioni politiche, “militanti” grassroots e istituzioni culturali (i think tank), curando tanto il marketing delle idee – attraverso nuovi strumenti di comunicazione – quanto la creazione di nuove comunità, entro le quali costruire identità e obiettivi comuni. Un modello che i Democratici e i liberal americani hanno compreso e fatto veramente proprio solo a metà degli anni duemila, aiutati dalle potenzialità offerte dal web (rispetto al quale hanno “bruciato” sul tempo i Repubblicani e i movimenti conservatori). Sono nati così il think tank democratico Center for The American Progress (nel 2003, una sorta di Casa Bianca di Clinton in esilio); gruppi come MoveOn o Health Care America NOW! (e altre miriadi di gruppi non-profit); pubblicazione online come The Huffington Post; il network dei finanziatori del Democracy Alliance, creato nel 2005 (nel cui board convivono i magnati alla Soros e le dirigenze sindacali: una rete nata a immagine e somiglianza della conservatrice Business Roundtable, fondata nel 1972).

Mentre questi nuovi attori della scena politica americana si facevano largo quasi improvvisamente, è stato in realtà il lavoro sotto traccia cominciato trent’anni fa – anche grazie al considerevole contributo dei Koch – ad aver dato i suoi frutti. Sono stati utilizzati i soliti “fondamentali”, vale a dire il sostegno materiale e culturale, attraverso l’uso del denaro e delle infrastrutture che permettono di articolare proposte di policy, idee e slogan facilmente spendibili nel mercato politico. Americans for Prosperity Foundation, per esempio (un’organizzazione voluta da David Koch nel 2004), si è preposta l’obiettivo di “educare” e addestrare gli attivisti del Tea Party su alcune issue delle elezioni del 2010; FreedomWorks, un’organizzazione gemella, si occupa specificamente della formazione dei reclutatori del Tea Party: quest’anno ha scelto di appoggiare in modo diretto quattro candidati, ovvero Marco Rubio, Pat Toomey, Mike Lee e Rand Paul, sui quali ha già investito 10 milioni di dollari. In cambio si chiede attenzione per i sei punti della propria piattaforma, dall’introduzione di una flat tax al sostegno verso la riforma del welfare.

E i Democratici? Sappiamo già che questo midterm sarà per loro un anno di magra, in attesa della lunghissima campagna elettorale che ci porterà al 2012. Ancor più che nel 2006 e nel 2008, sono i sindacati a fare la parte del leone, in termini finanziari e di mobilitazione: i miliardari filo-democratici come Peter Lewis – per non citare ancora il solito Soros – hanno scelto un profilo diverso, ovvero il sostegno economico alle campagne tematiche, dalla difesa della riforma sanitaria a quelle pro-ambiente, o ai gruppi impegnati nel get-out-the-vote. Insomma, un raffreddamento delle relazioni, anche se in modo non esplicito, con i vertici del partito Democratico: quest’ultimo sconta anche il disagio dei donors verso i recenti attacchi del presidente contro gli “interessi speciali”, proprio nell’anno in cui la Corte Suprema ha di fatto deregolamentato il mercato delle donazioni elettorali attraverso la sentenza Citizen United. A oggi, intanto, la campagna per il midterm 2008 è costata cinque volte di più di quella del midterm 2006.