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I due Partiti americani e le lezioni del passato

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Il percorso verso le Convention che eleggeranno i candidati alla presidenza è ancora lungo: si è votato in appena 14 stati su 50 e, se la situazione in campo democratico sembra favorevole a Hillary Clinton, nel campo repubblicano regna invece il caos. Anche trascurando i due candidati minori, Ben Carson e John Kasich, restano in gara tre candidati che teoricamente hanno la possibilità di diventare i portabandiera del partito alle elezioni dell’8 novembre: Donald Trump, Ted Cruz e Marco Rubio. Troppi. Si tratta di una competizione favorevole al miliardario di New York, che sostanzialmente sta lanciando un’OPA (un’offerta ostile di acquisto) sul Partito Repubblicano.

Perché un partito possa essere conquistato dall’esterno, occorre che sia fortemente indebolito, una situazione non sempre visibile fino a che un elemento nuovo non appare. Trump ha successo perché la base repubblicana non perdona ai suoi dirigenti l’inefficacia dei loro sette anni di guerriglia contro Obama. Si propone come leader ai lavoratori bianchi di un paese angosciato, dove la frattura sociale si è ampliata a dismisura, dove la diffidenza e il disprezzo nei confronti della classe politica nel suo complesso sono al massimo storico.

Questo malumore nei confronti dell’establishment non è nuovo e periodicamente si cristallizza in candidature alternative: nel 1992 il miliardario texano Ross Perot si presentò come indipendente, nel 2000 fu il turno dell’avvocato dei consumatori Ralph Nader. In entrambi i casi, il risultato fu modesto data la presenza di solidi candidati dei partiti tradizionali come Bill Clinton, Bush padre, Al Gore e Bush figlio. Le ultime elezioni presidenziali in cui si sono trovati di fronte solo due candidati, di cui però uno era un outsider, sono state quelle del 1972 e del 1964: nel primo caso l’outsider era un Democratico, nel secondo un Repubblicano.

Nel 1972, sui Democratici pesava il ricordo della convenzione di Chicago di quattro anni prima, quando gli oppositori della guerra del Vietnam iniziata da John Kennedy e Lyndon Johnson si scontrarono violentemente con la polizia, facilitando la vittoria di Richard Nixon. Contro il presidente repubblicano in carica si prospettavano, però, solo potenziali candidati democratici deboli: Ted Kennedy danneggiato da uno scandalo (nel 1969 aveva causato un incidente stradale che provocò la morte di una giovane collaboratrice) e il Senatore del Maine Edward Muskie. Alla fine la riforma degli statuti del partito, che favorivano l’ingresso delle minoranze etniche, delle donne e dei giovani, produssero la vittoria del Senatore George McGovern del South Dakota. McGovern suscitò un enorme entusiasmo tra i giovani, come Obama nel 2008 e Bernie Sanders quest’anno: allora, però, questo spirito militante non si tradusse in voti: il candidato democratico pacifista ottenne solo il 37,5% dei suffragi e Nixon venne rieletto con un’amplissima maggioranza.

Nel 1964, invece, era stato il turno della destra populista del Partito Repubblicano, che era riuscita a prevalere imponendo come suo candidato il Senatore dell’Arizona Barry Goldwater al posto del Governatore di New York Nelson Rockefeller (dell’omonima famiglia di banchieri). Un Partito Democratico unito attorno alla candidatura di Lyndon Johnson dopo lo choc dell’assassinio di Kennedy a Dallas, avvenuto un anno prima, stravinse: Johnson ottenne il 61% dei voti contro il 38% di Goldwater.

Questi casi sono diventati la bibbia politica dei commentatori politici americani, che ne hanno tratto due Iron Laws: primo, i candidati indipendenti non hanno nessuna possibilità (non ce la fece neppure Teddy Roosevelt nel 1912); secondo, quando ci sono solo due candidati maggiori, se uno dei due è un outsider verrà sepolto dalla valanga di voti per il suo avversario. In quei casi, gli elettori sono perfino disposti a cambiare colore politico: nel 1972 il 33% dei Democratici votò per Nixon, mentre nel 1964 il 20% dei Repubblicani votò per Johnson.

Nel 2016, queste leggi valgono ancora? Sulle candidature indipendenti si vedrà (personalmente non credo che Michael Bloomberg entrerà in gioco). Quest’anno ci troviamo chiaramente di fronte a un caso simile a quello del 1964, cioè a un candidato repubblicano fortemente nazionalista, aggressivo in politica estera, esterno all’establishment del partito. La legge numero due suggerirebbe che a novembre i Democratici vinceranno alla grande, attorno al 60% o più, perché Trump suscita fortissimi sentimenti negativi in una larga maggioranza dell’elettorato: il 58% degli americani ha un’opinione negativa di lui.

Tuttavia esiste anche un altro scenario, legato all’entusiasmo che i candidati sanno generare. In un paese come gli Stati Uniti, a bassa partecipazione elettorale (raramente sopra il 50% degli aventi diritto) vince non tantochi conquista gli elettori incerti, quanto chi mobilita i propri sostenitori in modo più efficace. In quest’ottica, è perfettamente possibile che Hillary Clinton non attiri un gran numero di Democratici ai seggi (il 54% degli americani hanno un’opinione negativa di lei) mentre l’elettorato repubblicano, in odio a Obama, ai democratici e a Hillary, vada a votare per Trump super-compatto.

Ci sono dei dati a sostegno di questa seconda ipotesi? Per ora non molti, ma è un fatto che la partecipazione alle primarie repubblicane 2016 è fortemente aumentata, mentre quella alle primarie democratiche, nonostante la presenza di Sanders, è diminuita. Questo fattore è particolarmente importante negli “swing states” come la Virginia, per esempio, dove sono favoriti i Repubblicani, malgrado Obama abbia vinto sia nel 2008 che nel 2012. Nelle primarie del Super Tuesday, circa un milione di elettori repubblicani si sono espressi, un risultato eccezionale considerato che nel 2012 il candidato repubblicano nelle elezioni di novembre, Mitt Romney, ottenne in quello stato 1.800.000 voti in tutto (nelle primarie, la partecipazione è una frazione del numero di elettori che partecipa alle elezioni generali). In campo democratico sono andati alle urne circa 680.000 votanti.

Un’interessante tabella compilata dallo statistico Nate Silver (che ha un brillantissimo record di previsioni centrate ed è molto prudente sulle possibilità di successo di Trump) ci dice che, dal 1980 ad oggi, la polarizzazione politica negli Stati Uniti è fortemente cresciuta. In altre parole, i Democratici votano per il candidato democratico e i Repubblicani per il candidato repubblicano, chiunque egli (o ella) sia. I dati dicono che gli elettori repubblicani,ancora assai mobili nel 1992 (un quarto di loro votò per Bill Clinton o per Ross Perot), lo erano molto meno nel 2012: appena il 7% di loro ha votato per Obama.

Questo significa che un candidato Trump, nonostante la sua dubbia credibilità, il suo estremismo e la sua retorica incendiaria potrebbe alla fine portare alle urne tutti gli elettori repubblicani, o quasi. Hillary sarà capace di fare lo stesso con gli elettori democratici?