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I dilemmi dell’economia nella campagna elettorale americana

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Quando si scrive di elezioni ed economia è difficile non evocare la lavagna sulla quale James Carville, lo stratega della prima campagna vincente di Bill Clinton nel 1992, scrisse “It’s the economy stupid”. Secondo quell’adagio le elezioni si vincono o perdono sulla base della performance economica del paese, se le cose vanno male il presidente in carica che si ripresenti verrà sfrattato dalla Casa Bianca – come accadde infatti a George H. W. Bush contro l’allora quarantenne governatore dell’Arkansas.

Si tratta di un adagio ancora valido, ma nel 2024 l’andamento dell’economia (i cosiddetti fondamentali) e la percezione da parte del pubblico di come vadano le cose non coincidono: questo rende più complicato il quadro, specie per gli strateghi della campagna Biden. L’insistenza sul miglioramento dei dati economici è uno dei focus della campagna del presidente uscente, assieme al pericolo Trump. Guardiamo ai numeri per poi analizzare come mai il messaggio, allo stato, non stia affatto funzionando.

Il pil americano per contea

 

L’inflazione è al 3,4%, quando al picco dell’estate 2022 era sopra il 9. La disoccupazione è al 3,9%, ai livelli del periodo che ha preceduto la pandemia del 2020, e nel frattempo i salari di molti comparti sono aumentati. Gli investimenti in infrastrutture previsti tra gli altri dall’Inflation Reduction Act (IRA) cui il partito repubblicano si è opposto con veemenza sono all’opera, così come gli incentivi per l’industria manufatturiera: in un viaggio recente per il Sud degli Stati Uniti, chi scrive ha visto all’opera decine di grandi cantieri stradali e nei pressi di Savannah, Georgia, l’enorme cantiere di una fabbrica Hyundai che costruirà auto elettriche. La spesa in costruzione di stabilimenti industriali è quadruplicata rispetto al 2020 e decuplicata rispetto al 2004.

 

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Il deficit con la Cina nel 2020 era 307 miliardi, 280 nel 2023 – e proiettando sull’anno i 60 miliardi dei primi tre mesi del ’24 si arriverebbe a un ulteriore calo – benché il numero resti enorme. Il Nasdaq ha di recente toccato i 17mila punti e la crescita del PIL non è vertiginosa, ma neppure piatta.

Eppure tutti i sondaggi recenti indicano una percezione negativa dello stato delle cose. Tre rilevazioni per New York Times, Guardian e Financial Times indicano come la maggioranza degli elettori pensi che le cose non stiano andando per il verso giusto. Metà degli elettori degli swing states, quelli decisivi per il risultato elettorale (indicati prevalentemente in Wisconsin, Michigan, Virginia, Georgia, Arizona, Nevada), hanno risposto al New York Times che l’economia va male (il 18% che va bene); secondo i sondaggisti ingaggiati dal Guardian, il 55% degli elettori ritiene che l’economia sia in recessione, il 49% che la disoccupazione stia aumentando e che la Borsa sia in calo; infine, le persone sondate dal Financial Times hanno come prima preoccupazione l’aumento dei prezzi, come seconda il reddito e come terza l’affitto.

Come mai tanta distanza tra dati e realtà percepita? La prima risposta riguarda i prezzi: dopo tre anni di inflazione qualsiasi cosa si compri costa molto più di quanto non costasse nel 2020: i prezzi hanno sì smesso di crescere, ma non sono tornati a livelli pre-invasione dell’Ucraina. Di nuovo, girando per gli Stati del Sud, non esattamente i più floridi degli Stati Uniti, l’impressione è quella di prezzi davvero alti, un’impressione che prima capitava di avere nelle metropoli delle coste.

Contano molto anche i tassi d’interesse. Come noto gli americani vivono anche e molto a debito, e i tassi più alti implicano e hanno implicato una spesa maggiore a prescindere dai prezzi pagati all’acquisto di qualsiasi cosa. Se questo qualsiasi cosa è un’automobile o una casa (insomma una spesa ingente ma inevitabile), il tasso di interesse sul prestito avrà un impatto notevole sulle finanze. Dal 1983 il tasso di inflazione viene calcolato senza tenere conto dei tassi di interesse: se i dati dicono dunque correttamente che questa ha smesso di crescere, in realtà chi ha bisogno di credito la percepisce ben più alta del tasso ufficiale. L’aver mantenuto sostanzialmente intatti i dazi sulle merci cinesi imposti da Trump ha ridotto il deficit commerciale con Pechino, ma ha contribuito all’aumento dei prezzi dei beni di consumo, largamente made in China.

 

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Negli ultimi anni cresce anche il numero di persone che vivono in strada. Naturalmente si tratta di una percentuale minima (650mila persone nel 2023, anche se il dato è probabilmente sottostimato) fatta di non elettori, ma un tasso di crescita di persone senza casa o a rischio di sfratto implica un livello di insicurezza molto alto per fasce crescenti della popolazione. Parlando con diversi senza casa o utenti delle mense per poveri ad Atlanta, come altrove, si registra come molto spesso costoro non siano emarginati ma lavoratori poveri o persone cui è bastata una qualche forma di crisi (salute, lavoro, depressione) per finire diseredata. Eviction Lab, che monitora gli sfratti in 34 città di 10 Stati, segnala che a maggio gli sfratti sono stati 1 milione e 130mila, un dato che non contiene le aree rurali e che non include la California, la Georgia, il New Jersey, l’Illinois. A Las Vegas, Nevada, la città dove Biden deve prendere voti se vuole conquistare quello swing state, gli affitti sono cresciuti del 30% rispetto al pre-pandemia e 7 su 10 tra le professioni più comuni in città non possono permettersi l’affitto di un monolocale. Quante famiglie hanno parenti o amici sfrattati? Come guardano all’economia queste persone?

Se a questi dati aggiungiamo che nelle aree metropolitane e tra i gruppi sociali dove i Dem fanno il pieno di voti (neri, latinos, giovani) il problema è più forte e sentito, ci spieghiamo le difficoltà crescenti di Biden. Il presidente, noto per saper essere empatico, ripete i dati positivi dell’economia senza cogliere come questi non bastino.

Che la colpa sia della guerra in Ucraina, della gestione tragicomica della pandemia da parte del suo predecessore ed avversario, non conta molto: Trump ha mandato assegni nelle case di chi era in difficoltà e abbassato le tasse (ne hanno beneficiato i più ricchi, ma in misura minore anche il ceto medio); Biden, che pure proponeva di investire in case a buon prezzo, viene percepito come un pessimo amministratore dell’economia.