international analysis and commentary

Hashtag diplomacy

7,105

Cosa sappiamo di hashtag diplomacy? Online si moltiplicano le definizioni: diplomazia digitale, cyber diplomacy, web diplomacy, persino “twiplomacy” perché Twitter è divenuto un canale di comunicazione indispensabile per la politica, il mondo imprenditoriale, il giornalismo, l’accademia e la diplomazia. Otto anni fa in testa alla hit parade dei leader mondiali su Twitter avremmo trovato Barack Obama con circa 33 milioni di follower, seguito a qualche distanza da Papa Francesco.

A gennaio 2021, l’iperattivo e imprevedibile account personale di Donald Trump su Twitter veniva oscurato a seguito dello sdegno prodotto dalla violenza dei suoi sostenitori a Capitol Hill, a pochi giorni dalla fine del mandato presidenziale. Oscurare il presidente degli Stati Uniti è una decisione straordinaria per molte ragioni, prima tra tutte per quello che rivela del potere della leadership di Twitter. I follower di Trump sul social erano 88 milioni nell’estate del 2020: un numero quasi tre volte superiore a quello del suo predecessore Obama. Questa crescita fa senz’altro riflettere sulla formula comunicativa di Trump, ma anche sulla crescita esponenziale di attenzione nel pubblico mondiale per gli account dei “grandi” tra il 2013 e il 2020.

Hashtag disegnati al suolo per la campagna #ThisIsACoup contro il bailout alla Grecia durante la crisi finanziaria europea

 

L’edizione 2020 del Twiplomacy Study (twiplomacy.com segue le iniziative di diplomazia digitale nel mondo) calcola che i governi e i leader di 189 su 193 paesi membri delle Nazioni Unite siano attivi sui social network. Quanto ai governanti mondiali con un account personale su Twitter, sono 163 i capi di stato e di governo e 132 i ministri degli Esteri. Forse ancora più sorprendenti sono gli 8,7 milioni di tweet inviati dai governanti mondiali e, al giugno del 2020, i 620 milioni di follower delle loro pagine Facebook.

Se ne parla poco ma la nuova “diplomazia digitale” (DD) è un settore in rapida espansione sia sul terreno empirico, sia su quello analitico con una presenza che inizia a consolidarsi nella ricerca e nella didattica delle università, si pensi al consolidato usc Center on Public Diplomacy, all’Oxford Digital Diplomacy Research Group e, da quest’anno, all’insegnamento di Public Diplomacy in the Digital Era all’Università di Pavia.

Questa rivoluzione è iniziata prima della pandemia, circa dieci anni fa, quando la diplomazia pubblica e quella digitale hanno teso a convergere in un percorso parallelo che stiamo ancora cercando di comprendere pienamente. Secondo la definizione degli studiosi Corneliu Bjola e Marcus Holmes (nel 2015 hanno pubblicato Digital Diplomacy: Theory and Practice) la diplomazia digitale si propone tre obiettivi fondamentali: la trasmissione di contenuti di diplomazia pubblica o nation branding, l’istituzionalizzazione di canali diplomatici digitali e la raccolta e organizzazione delle informazioni rilevanti e rintracciabili nelle fonti digitali.

 

PEOPLE TO PEOPLE. L’evoluzione della diplomazia pubblica verso la digitalizzazione rende possibile alla società civile e non solo ai governanti o ai loro rappresentanti di entrare nel gioco diplomatico, dialogando attraverso i canali dei social media ufficiali. Ma qual è lo scopo di questo dialogo? Joseph Nye aveva già risposto a questa domanda alla fine degli anni Ottanta, definendo il soft power come la capacità di trasformare in persuasione l’attrazione esercitata da un paese su altri. Questo significa che la diplomazia pubblica che Joseph Nye ha continuato a studiare negli anni Duemila[1], ha un potenziale formidabile di trasmissione del soft power e può raggiungere opinioni pubbliche e governi. Soft power significa dunque capacità di attrazione fondata su valori e ideali nazionali di lungo periodo, sul milieu culturale che se condiviso produce emozioni e desiderio di emulazione, e non certo per ultima, su strategie efficaci in politica estera.

Quali sono i canali della diplomazia pubblica e quali le potenzialità di allargarne il raggio d’azione al servizio degli interessi nazionali cavalcando la rivoluzione digitale? Negli ultimi dieci anni questo interrogativo è circolato con insistenza nei corridoi dei ministeri degli Esteri e presso le rappresentanze diplomatiche mondiali con un’accelerazione nelle capitali ad alta densità digitale, come Washington e Londra. Nel caso degli Stati Uniti, il legame tra Silicon Valley e il dipartimento di Stato ai tempi della presidenza Obama e il ruolo di Hillary Clinton nel promuovere la digitalizzazione della diplomazia people to people, hanno proiettato un’immagine sempre più forte sul terreno degli approcci e delle metodologie, trasformando il dipartimento di Stato nell’innovatore e user di punta mondiale della DD[2].

A questo risultato misurabile in milioni di nuovi utenti, ha senz’altro contribuito il training professionale del personale diplomatico statunitense presso Facebook, Google o Twitter. Il focus sulle skill tecniche e su quelle creative, nell’individuazione di nuovi obiettivi, strumenti e linguaggi, è una componente centrale della riflessione e pianificazione in atto oggi presso i ministeri degli Affari esteri e le rappresentanze diplomatiche mondiali. Sarebbe un errore però ritenere che la diplomazia pubblica e la sua digitalizzazione richiedano soltanto di essere implementate, essendo una risposta facile da costruire e dal successo garantito. Nessun brand si afferma soltanto grazie alla promozione e, nel caso della diplomazia digitale, non è immaginabile che gli strumenti possano colmare la carenza di un progetto complesso che richiede un forte indirizzo politico. Evidentemente, questa progettazione e la sua implementazione non restano in una bolla digitale, ma devono coabitare con altri canali diplomatici tradizionali e coadiuvarli[3].

La pandemia ha recentemente squilibrato questa riorganizzazione parallela dei canali tradizionali e digitali della diplomazia in direzione di quella che potrà apparire in futuro come una forzatura digitale. Soprattutto in settori come quello negoziale – e lo abbiamo visto nell’ultima fase del negoziato sulla Brexit – un incontro a margine dell’evento ufficiale, una cena tra leader, o una semplice stretta di mano restano insostituibili.

 

FRA DISCREZIONE E INDISCREZIONE. Gli ambasciatori e le ambasciate diventano digital gatekeeper che raccolgono, filtrano e valutano informazioni in tempo reale tanto nel quotidiano quanto in situazioni emergenziali[4]. Dalle Primavere arabe in poi la nuova dimensione digitale della protesta ha esposto il ritardo della diplomazia nel penetrare, navigare e comprendere i canali dei social media. La lezione è servita ed è oggi pratica sempre più consolidata che l’ambasciatore diriga le attività digitali della sua ambasciata e decida quale ruolo assumere sui social media. Lo studio di due consistenti campioni di account Twitter di ambasciate e ambasciatori a Londra e a Washington è a questo proposito illuminate: gli ambasciatori – e il caso italiano in questi due contesti è perfettamente allineato – sono in grado di attrarre seguito, hanno appeal digitale e potenzialmente contribuiscono alle attività delle loro ambasciate[5]. Ma la personalizzazione della presenza diplomatica online si basa ancora su regole non scritte e richiede un difficile bilanciamento tra individualismo e professionalità, o meglio un’attenta valutazione caso per caso, di quale e quanto spazio di manovra possa avere un diplomatico nell’esprimere valutazioni politiche in tempo reale, o nel decidere quali temi trattare sui social media. Essere popolari – cioè avere follower – come scrive l’ambasciatrice britannico in Serbia Sian McLeod nel blog del Foreign Office, non è facile limitandosi alla professionalità: “I get more attention on social media if I play a musical instrument or post a picture of my bicycle than if I write about arms control treaties.”

Ben più controversi sono i casi di ambasciatori che superano le barriere della discrezione esprimendo giudizi tranchant come nel caso del rappresentante francese a Washington, Gérard Araud[6]. Già nelle prime ore del 9 novembre 2016, Araud commentava l’elezione di Trump su Twitter con queste parole: “After Brexit, after Trump, a world is collapsing.” Successivamente, l’ambasciatore avrebbe ammesso: “I was right on substance; I was wrong in the expression” ma ha continuato, senza autocensurarsi, nel definire Trump “whimsical, unpredictable, uninformed”. L’eccesso di franchezza nell’esprimere giudizi personali è difficilmente compatibile con un ruolo professionale sui social media il cui obiettivo principale dovrebbe essere trasmettere soft power a nome del proprio paese.

L’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump, attivissimo su Twitter

 

Il caso di Araud non è generalizzato. E assai più frequente che gli ambasciatori, o altre figure apicali che rappresentano il proprio paese all’estero, acquisiscano una presenza consolidata sulle piattaforme digitali interagendo con il pubblico grazie a un front stage attentamente costruito e in linea con la politica estera del proprio paese. E rivelando solo molto selettivamente il loro backstage nel quale sono ammesse le percezioni o preferenze personali.

Ma la copertura del front stage può non bastare, come dimostrano il caso Wikileaks e la crisi della disinformazione attuale. La internet freedom è una lama a doppio taglio, come lo è anche la liberalizzazione digitale che rende possibile l’aggregazione della protesta in regimi totalitari, ma anche la successiva repressione di quelle stesse opposizioni grazie all’indagine digitale dei governi al potere. Con la presidenza Trump l’attenzione mondiale si è spostata dal processo di digitalizzazione della diplomazia statunitense dell’era Obama/Clinton, alla digitalizzazione da prima pagina delle opinioni del presidente Trump via Twitter, opinioni molto spesso espresse in totale autonomia o in contrasto con la macchina istituzionale.

Nell’aprile del 2019 il presidente denunciava il suo social media preferito di orchestrare political games e convocava il CEO Jack Dorsey alla Casa Bianca. Quanto teso sia stato l’incontro tra i due non emerge dal commento di Trump che lo definisce “a great meeting”, ma la resa dei conti sarebbe arrivata in termini senza precedenti, come abbiamo visto, alla fine del suo mandato. La diplomazia pubblica e il soft power degli Stati Uniti si è ridotto nell’era Trump, come registrato dal Soft Power 30 Index. Come ha osservato Joseph Nye, i tweet hanno un impatto sull’agenda mondiale ma non creano di per se soft power perché quest’ultimo si fonda in primo luogo sulla credibilità e sulla legittimità complessiva di un paese a livello internazionale. Si potrebbe aggiungere che i tweet indubbiamente non creano soft power, ma possono contribuire a comunicarlo o a danneggiarlo.

 

Il LATO OSCURO DELLA DIPLOMAZIA DIGITALE. Nel nuovo mondo digitale nel quale si muovono già attivamente i ministeri degli Esteri e le rappresentanze diplomatiche, l’adattamento di pratiche e obiettivi ai nuovi strumenti richiede non solo la trasformazione dei modelli ma anche un nuovo approccio alla formazione. L’obiettivo di offrire metodologie e strumenti per fare fronte alla dimensione estemporanea nelle scelte digitali dei singoli soggetti, in molti casi cresciuti professionalmente nell’era predigitale, è certamente una necessità sempre più condivisa. Ma la sfida più minacciosa che gli studiosi di diplomazia digitale hanno posto in risalto è quella della destabilizzazione: ci riferiamo al dark side della disinformazione digitale e al suo impatto su politica e relazioni internazionali.

Dal 2014 non sono mancati gli attacchi cibernetici, le campagne di disinformazione di alto profilo associate all’avvento dell’ISIS in Iraq e in Siria e all’annessione della Crimea, e le interferenze nei processi elettorali di paesi terzi in scenari interni controversi, come le elezioni del 2016 negli Stati Uniti o il referendum sulla Brexit lo stesso anno. Gli stessi strumenti che consentono a ministeri e ambasciate di raggiungere milioni di persone per promuovere l’immagine di un paese, stimolare relazioni commerciali o facilitare il dialogo politico-culturale, possono essere utilizzati per penetrare e prendere di mira opinioni pubbliche o istituzioni di paesi terzi. In altre parole, il “lato oscuro” della diplomazia pubblica[7] mira alla propaganda e alla disinformazione che dilaga a macchia d’olio, se è vero che le fake news viaggiano a una velocità sei volte maggiore di quelle accurate. Di fronte a queste sfide si pone con urgenza la questione di quali siano le contro strategie che i paesi target possono adottare.

Che cosa può fare la diplomazia pubblica per fronteggiare gli attacchi che derivano dall’inevitabile “dual use” degli strumenti digitali? Gli studi recenti su questo tema offrono un ventaglio di risposte possibili. Il primo obiettivo di un governo oggetto di attacchi digitali è negare l’ossigeno della pubblicità (come diceva Margaret Thatcher riferendosi ai terroristi dell’IRA) alle campagne di disinformazione. Contenere o contrastare la disinformazione proveniente da fonti governative o attori non statali richiede scelte strategiche.

Ignorare è una di queste tattiche perché riduce la risonanza dell’azione che si intende contrastare, ma funziona soltanto se i contenuti della campagna di disinformazione non si sono ancora pienamente affermati nel mondo digitale. Altre possibilità sono correggere, screditare o ridicolizzare la controparte. Un esempio in questo senso è la scelta operata dal Foreign Office allo scopo di privare di credibilità le fonti ministeriali russe in una campagna Twitter (@FCDOGovUK). Un altro caso è la campagna The #EuropeUnited lanciata dal ministero degli Affari esteri tedesco nel giugno del 2018, per riaffermare la credibilità del concetto di coesione europea contro messaggi che mirano a fomentare la disintegrazione.

Trasformare la forza dell’oppositore in debolezza è possibile disseminando il dubbio sulla credibilità della fonte. Evidentemente, le risposte istituzionali alla disinformazione attivano un’escalation che può culminare nel contrattacco contro il network disinformatore, grazie alla mappatura dei follower del “nemico” da parte della “vittima” dell’attacco digitale. È questa una tattica che è stata adottata in alcuni casi dal ministero degli Esteri israeliano[8].

La pandemia è anche una crisi di disinformazione perché quest’ultima fiorisce in uno scenario di barriere fisiche e psicologiche in continua crescita e di parallela crescita esponenziale dei numeri di soggetti attivi nel mondo digitale. La diplomazia pubblica e digitale ha avuto un ruolo importante nell’anno trascorso tra informazione e disinformazione sulle origini, le caratteristiche, il trattamento medico, la protezione individuale e le responsabilità relative al Covid. Russia e Cina, con la loro presenza a supporto di criticità ospedaliere in Italia nella fase più acuta della pandemia, hanno capitalizzato con successo le loro azioni e costruito efficaci azioni di diplomazia pubblica digitale.

 

VACCINE DIPLOMACY. Oggi siamo appena approdati a una nuova fase, quella della “vaccine diplomacy”. La Gran Bretagna, gli Stati Uniti, la Germania in collaborazione con i britannici, la Cina e la Russia sono tutti arrivati prima degli altri a produrre vaccini per contrastare il Covid. Dall’inizio della pandemia, i laboratori di tutto il mondo hanno mirato a questo obiettivo in tempi accelerati per interrompere il circolo vizioso di lockdown fatali per l’economia e di aperture letali per i contagi. Adesso si tratta di inoculare capillarmente il maggior numero possibile di individui a livello globale. Per il momento ci troviamo nella fase nazionale, o nazionalista, della campagna di vaccinazione. E così che la compagnia farmaceutica svedese-britannica AstraZeneca si è trovata al centro di polemiche tra l’Unione Europea, la Gran Bretagna, l’Irlanda del Nord e l’Irlanda per aver annunciato di non essere in grado di consegnare all’UE le promesse dosi del vaccino, mentre quelle acquistate dalla Gran Bretagna restavano garantite. È un incidente che è stato superato (con una mediazione diplomatica tradizionale tra il primo ministro Boris Johnson e la presidente della commissione europea Ursula von der Leyen), ma si tratta di un segnale allarmante dell’emergente nazionalismo che l’accesso e il controllo dei vaccini può scatenare e che l’ue fatica a gestire.

Sull’altro fronte della “vaccine diplomacy”, la disinformazione sulla campagna di immunizzazione è senz’altro una sfida, ma lo è anche la competizione d’immagine che una diplomazia pubblica fondata sulla condivisione delle riserve di vaccini può attivare. Ancora una volta la Cina è in prima fila e pronta a utilizzare il suo CoronaVac come strumento di diplomazia pubblica a vantaggio della propria immagine internazionale che il dibattito sulle origini della pandemia ha fortemente appannato. Gli Stati Uniti di Biden risponderanno su questo terreno? E l’Unione Europea e la Gran Bretagna riusciranno a dimostrare che il post Brexit include anche una strategia comune convincente sulle immunizzazioni? Queste pagine della hashtag diplomacy sono ancora da scrivere.

 

 


Note:

[1] Joseph Nye, “Public Diplomacy and Soft Power”, The Annals of the American Academy of Political and Social Science, 2008.

[2] Michael Hirsh, “The Clinton legacy: how will history judge the soft power Secretary of State?” Foreign Affairs, vol. 92, n. 3, 2013.

[3] Corneliu Bjola, “Getting digital diplomacy right: what quantum theory can teach us about measuring impact”, Global Affairs, vol. 2, n. 3, 2016.

[4] Sabrina Sotiriu, Digital diplomacy: between promises and reality, Routledge 2015.

[5] Ilan Manor, “Are we there yet: Have mfas realized the potential of digital diplomacy?” Brill Research Perspectives, 2016.

[6] Yara Bayoumy, “The French ambassador is retiring today”, The Atlantic, April 19, 2019.

[7] Corneliu Bjola, “The ‘dark side’ of digital diplomacy: countering disinformation and propaganda”, Real Instituto Elcano, 15 gennaio 2019.

[8] Corneliu Bjola e James Pamment, “Digital containment: Revisiting containment strategy in the digital age”, Global Affairs, vol. 2, 2016.