international analysis and commentary

Nella guerra di Gaza il futuro della West Bank

1,571

Israele bombarda Gaza. Ma in realtà, mira alla West Bank (la Cisgiordania). Netanyahu è stato chiaro. Questa volta, l’obiettivo è liquidare Hamas. Militarmente e politicamente. Totalmente. Ma il 7 ottobre, mentre i primi missili si abbattevano su Gaza, migliaia di riservisti venivano inviati di rinforzo nella West Bank: per bloccarla. I checkpoint sono ovunque. Ogni città è chiusa, e circondata, mentre tra una città e l’altra si moltiplicano gli assalti dei coloni, a cui il ministro alla Sicurezza Ben-Gvir sta distribuendo armi. E intanto, nei campi profughi è battaglia. Sono 19 in tutto, e sono città nelle città, letteralmente, perché non sono sotto la giurisdizione dell’Autorità Palestinese, hanno ognuno una propria amministrazione, un proprio Comitato Popolare: sono i focolai della resistenza. E i raid israeliani sono ogni notte. Da mesi. Ma ora, è diverso: l’IDF (l’esercito israeliano) non entra tanto con blindati e carrarmati. Entra con le ruspe.

Una strada di Jenin (West Bank) dopo il raid dell’esercito israeliano del 30 ottobre

 

A Gaza c’è una guerra di eliminazione. Nella West Bank, una guerra di demolizione.

E non c’è partita. Anche se è una guerra asimmetrica, i numeri sono numeri. L’IDF ha 170mila uomini, più 450mila riservisti, di cui 360mila già mobilitati: nel 2022, il suo budget è stato di 17,8 miliardi di dollari. Superiore al PIL di West Bank e Gaza insieme.

Hamas ha circa 30mila miliziani. Per il futuro di Gaza intanto si profila sempre più l’ipotesi di una sorta di governo tecnico. Un governo collegiale, e transitorio; che finanziato dai paesi arabi, e con un forte legame con l’Egitto, ricostruisca tutto, fino a nuove elezioni. Una delle strategie più classiche: la pace attraverso lo sviluppo. La normalità attraverso la normalizzazione. Il modello è l’Autorità Palestinese degli anni di Salam Fayyad. Economista della Banca Mondiale. Fu nominato primo ministro dell’Autorità Palestinese nel 2007, alla fine della Seconda Intifada: quando Gaza finì sotto il controllo di Hamas, e la West Bank, invece, fu inondata di dollari. E in un certo senso, ha funzionato: in questi giorni, Ramallah qui è l’unica città in cui la vita è più o meno la solita. Caffè e bar e musica fino all’alba.

Ma se per Gaza torna quello che era il progetto degli Accordi di Oslo del 1993, in fondo, il progetto di una Dubai del Mediterraneo, per la West Bank si profila tutt’altro. Si profila l’annessione.

Quello che sta avvenendo in questi giorni, o meglio, quello che sta avvenendo da mesi, e anni, e che in questi giorni si sta intensificando, non è che una riedizione del mai tramontato Piano Allon, che Israele ha in archivio dal 1967. Perché per Israele, dal 1967, dalla conquista di Gaza e della West Bank, i termini del problema non sono mai cambiati: e cioè, come avere il massimo della terra con il minimo degli arabi. La proposta di Yigal Allon, comandante delle forze speciali degli insediamenti ebraici in Palestina (Palmach) nella guerra del 1948, e poi a lungo deputato laburista, era sostanzialmente quella di dividere la West Bank attraverso gli insediamenti, per poi unirla in parte a Israele.

 

Leggi anche:
Il negoziato impossibile tra israeliani e palestinesi
How Netanyahu’s legacy is on the line in Gaza – along with Israel’s future

 

Allon immaginava di dividerla in tre: mentre ora è già divisa in 165. Perché i coloni sono 500mila ormai, 700mila contando anche quelli di Gerusalemme, e sono sparsi in 146 insediamenti e 144 avamposti. A cui sommare la frammentazione causata da 77 checkpoint fissi e 568 altre barriere di vario tipo, secondo l’ultimo bollettino OCHA. E per questo le armi ai coloni. E nei campi profughi, le ruspe. L’obiettivo è svuotare le aree rurali, l’Area C, in base alla classificazione di Oslo, che corrisponde al 61% della West Bank, ma in cui non abitano che 180mila palestinesi, il 7% della popolazione, e via via, modernizzare e integrare le città, l’Area A. Il 18% della West Bank. Perché una volta bonificate dei campi profughi, diventino come Haifa. Come Jaffa. Città israeliane a carattere arabo.

In cui, magari, rilasciare facilmente visti Schengen per l’Unione Europea. Come in Libano. In cui dall’ultimo censimento i rifugiati risultano essere 110mila. Ufficialmente, restano 450mila. E invece, stanno andando via tutti.

Lineare. In Israele, niente e nessuno era pronto al 7 ottobre. Tranne la soluzione.