Guerra fredda o concerto delle potenze: come gestire la Cina
Che tipo di assetto avrà il mondo post-Covid? In un saggio pubblicato da Foreign Affairs, Richard Haass e Charles Kupchan, del Council on Foreign Relations, sostengono che lo scenario di una nuova guerra fredda, dominata dalla competizione tecnologica fra Stati Uniti e Cina, può e deve essere evitato. Propongono invece la creazione di un concerto delle grandi potenze, adattando alle sfide globali di oggi un modello che risale alla storia europea del 19° secolo.
Ma facciamo un passo indietro. L’ordine internazionale attuale, con istituzioni e organismi in parte ereditati dal secondo dopoguerra (Nazioni Unite) e in parte creati successivamente (G7 e G20), è diventato in realtà un grande disordine. E non funziona, nel senso che non riesce a garantire né la stabilità né soluzioni cooperative ai problemi di oggi. La ragione è che il vecchio ordine internazionale, tanto più dopo il crollo dell’Urss, si fondava sul predominio degli Stati Uniti e delle loro alleanze occidentali; mentre il mondo di oggi è caratterizzato da centri di potere multipli. E’ un mondo al tempo stesso frammentato e globale. Gli studiosi di relazioni internazionali parlano di “multipolarismo”. Bene – o forse male: il multipolarismo è difficile da gestire e tende a creare tensioni crescenti. In modo particolare nelle fasi in cui una potenza emergente (la Cina) sfida la potenza esistente (gli Stati Uniti).
In che modo è possibile prevenire che l’esito sia un conflitto?
La risposta dell’amministrazione Biden è che l’America debba puntare a costruire una grande coalizione fra le democrazie occidentali e asiatiche. Nella sua prima conferenza stampa, il presidente degli Stati Uniti ha rilanciato ancora una volta l’idea di un summit delle democrazie, volto a rafforzare, con una sorta di vincolo esterno, la tenuta dei sistemi liberali di fronte all’ascesa delle potenze autoritarie. E’ lo schema di un nuovo mondo a due poli, bipolare: la Cina, grande rivale del 21° secolo, guiderà il campo delle potenze autoritarie, con la Russia di Putin come junior partner; gli Stati Uniti, con i loro vecchi alleati europei e i nuovi alleati indo-pacifici, guideranno il campo delle democrazie. Tecno-autoritarismo contro tecno-democrazia, per usare i termini di Antony Blinken, segretario di Stato americano.
Questa formula ridurrebbe la frantumazione tipica del multipolarismo, forzando le altre potenze a schierarsi; permetterebbe agli Stati Uniti di riaffermare la propria leadership su un Occidente allargato al Pacifico; rafforzerebbe le democrazie al loro interno e darebbe una sua forma di stabilità al sistema globale. Assomiglia alla vecchia guerra fredda, ma in condizioni rese più difficili dalla rilevanza economica della Cina e dalle catene globali del valore. Nella guerra fredda del secolo scorso, l’Unione sovietica era, dal punto di vista occidentale, una minaccia militare e ideologica; ma non contava granché sul piano economico.
Nella guerra fredda hi-tech di oggi e domani, la Cina è in grado di competere su tutta la scala degli indicatori di potenza. Il vantaggio comparato degli Stati Uniti consiste ancora nelle alleanze, come Joe Biden è pronto a riconoscere a differenza di Donald Trump. Ma sarà quanto mai complicato trovare un giusto equilibrio fra la competizione estrema fra sistemi avversari e la necessità di cooperare su alcune questioni globali (cambiamento climatico o proliferazione nucleare).
Richard Haass e Charles Kupchan sostengono che una impostazione del genere non può funzionare. Perché la divisione del mondo fra sistemi democratici e autoritari nega la legittimità dei governi avversari, spinge la Cina a creare un proprio sistema di alleanze, forzando un matrimonio innaturale fra Mosca e Pechino e dà per scontato un allineamento europeo. L’alternativa è un concerto delle grandi potenze, il cui precedente storico (il Concerto d’Europa del 1815) riuscì, in assenza di una potenza dominante, a preservare la pace per mezzo secolo dopo la fine sanguinosa delle guerre Napoleoniche. Se nei decenni successivi al Congresso di Vienna erano seduti al tavolo Francia, Russia, Austria e Prussia, cui si aggiunse poi il Regno Unito, i paesi membri del nuovo Concerto globale sarebbero, nella proposta del Council on Foreign Relations, Stati Uniti, Cina, Unione Europea, India, Giappone e Russia. Si tratta, collettivamente, del 70% del PIL globale. Questo nuovo raggruppamento – più influente del G7 (perché includerebbe Cina e Russia) e più ristretto del G20 (troppo largo secondo gli autori per funzionare) – consentirebbe un dialogo strategico fra le grandi potenze di oggi, rendendo meno probabili scelte unilaterali e puntando a mantenere la stabilità territoriale. Sarebbe un organo consultivo e non decisionale (ma dotato di una sede e di una segreteria permanente), che finirebbe per rafforzare, funzionando da “steering committee“, le attuali organizzazioni internazionali.
Una proposta del genere – che esclude dal tavolo i paesi europei, inclusa la Gran Bretagna post-Brexit, a favore dell’UE – è destinata a incontrare ogni genere di difficoltà, a cominciare appunto dalla scelta dei soci del club. Non volerà, se devo fare una previsione. E si possono avanzare critiche specifiche all’idea che il Concerto europeo del 19° secolo costituisca un precedente appropriato. Come scrive Henry Kissinger nel suo testo più impegnativo, Diplomacy, le ragioni per cui il Concerto europeo durò vari decenni (fino a quando le guerre fra Austria e Prussia e fra Francia e Prussia non ne decretarono la crisi) è che esisteva un equilibrio di potenza continentale, con il riconoscimento di fatto delle rispettive sfere di influenza; e soprattutto che esisteva una “compatibilità” di fondo fra le istituzioni domestiche di grandi potenze interessate a una restaurazione in Europa, evitando moti liberali.
Questo impianto comune (che Kissinger stesso aveva descritto nei dettagli nella sua tesi di dottorato, poi pubblicata) è ciò che permise al Concerto di funzionare. E che invece, aggiungiamo noi, rende difficile applicare la storia di allora a un eventuale Concerto globale di oggi, visto che questa “compatibilità” non esiste come condizione di partenza.
Ma la provocazione intellettuale è in ogni caso importante: come evitare che il confronto con la Cina sfugga di mano, per esempio con un incidente su Taiwan? La tesi di Kupchan e Haass è che insistere sulla competizione fra i valori, invece che sulla composizione degli interessi, non aiuterà. E’ una visione real-politica un po’ schematica, che è distante dall’approccio della attuale presidenza democratica e trova impreparata un’Europa che crede nelle formule – il multilateralismo efficace – prima ancora che negli strumenti per conseguirle.
* Una versione di questo articolo è stata pubblicata su Repubblica del 29 marzo 2021