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Gli sforzi contro il riscaldamento globale, nonostante Donald Trump

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Sono passati più di 7 mesi da quando, il 1 giugno 2017, Donald Trump ha annunciato l’intenzione di avviare le procedure per il ritiro degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi. È quindi possibile fare un primo bilancio, che porta ad una conclusione chiara: in questi mesi l’amministrazione Trump è rimasta nettamente, clamorosamente isolata. Non ha raccolto consensi di altri governi, che anzi hanno reagito criticando con varie tonalità questa decisione. Non ha avuto seguito all’interno degli stessi Stati Uniti, dove è anzi nata e fortificata una coalizione alternativa di Stati, città, aziende, investitori, università “We are still in – American Pledge” che hanno dichiarato la volontà di continuare a lavorare per applicare l’Accordo di Parigi. Una settantina di Sindaci, sia Repubblicani che Democratici, di grandi città statunitensi (tra cui quelli di New York, Chicago, Seattle, Boston, Los Angeles, San Francisco, Miami, Houston) hanno ribadito la volontà di assumere o confermare impegni di riduzione delle emissioni di gas climalteranti e di sostenere il negoziato globale; analoghi impegni sono arrivati da molti Stati (fra cui la California), da centinaia di grandi aziende e investitori. Del resto, alla COP23 di Bonn, l’ultima conferenza mondiale ONU sul clima tenutasi a novembre, gli Stati Uniti non hanno fatto ostruzionismo, come successo in passato durante l’Amministrazione Bush Jr., e non hanno cercato di bloccare il negoziato.

Ha molte ragioni chi ritiene che a Trump non importi davvero boicottare l’Accordo di Parigi, e che a contare di più l’effetto annuncio, e poter dire di aver mantenuto una promessa elettorale, garantirsi consensi in un elettorato, quello repubblicano, in cui la negazione del problema del surriscaldamento globale rimane prevalente, seppur in diminuzione negli ultimi anni. Negli Stati Uniti la posizione del presidente in carica è in effetti minoritaria: un autorevole sondaggio ha mostrato che circa il 70% degli statunitensi è favorevole alla partecipazione all’Accordo di Parigi, e solo il 13% è contrario.

L’inconsistenza e la miopia delle critiche di Trump alla sostanza dell’Accordo di Parigi sono talmente evidenti che non hanno suscitato alcun vero dibattito. I numeri sulle probabili perdite di posti di lavoro (2,5 milioni entro il 2025) o sulla perdita di benessere conseguenti alle politiche sul clima, sono rozzi errori o vere e proprie bugie: tesi senza fondamento che assomigliano agli argomenti con cui nel corso degli anni Trump e i suoi collaboratori hanno denigrato o deriso la scienza del clima.

La decisione di Trump avrà come principale effetto il disimpegno degli USA nel rilancio degli impegni di riduzione delle emissioni a livello globale, fondamentali per rispettare gli ambiziosi obiettivi dell’Accordo, “limitare l’aumento medio della temperatura globale ben al di sotto dei 2 gradi centigradi” e altresì “fare ogni sforzo possibile per contenere l’aumento delle temperature in +1,5°C” (ad oggi, l’aumento delle temperature globali già registrato è poco superiore a 1°C).

Per avere buone probabilità di rispettare questo obiettivo – che con i trend attuali peraltro non sarebbe raggiungibile –  è necessario ridurre drasticamente le emissioni dei gas che surriscaldano il pianeta, portarle prossime allo zero nei prossimi 3-4 decenni. In sostanza, si tratta di rottamare l’intero sistema energetico basato sui combustibili fossili, azzerare la deforestazione, nonché riuscire a rendere operative le tecnologie in grado di ottenere emissioni negative, assorbendo CO2 dall’aria e stoccando il carbonio nel sottosuolo o in altri modi.

Un articolo pubblicato su Science pochi mesi prima dell’annuncio di Trump denominava “legge del carbonio” la traiettoria delle emissioni di CO2 congruente con l’Accordo di Parigi: dimezzare le emissioni ogni decennio, da 40 miliardi di tonnellate l’anno del 2020 a 5 miliardi del 2050. Uno sforzo gigantesco, con conseguenze per tutti i settori economici, per le politiche energetiche, territoriali e fiscali di tutte le nazioni. Pur se negli ultimi anni molte tecnologie per produrre energia rinnovabile sono diventate più economiche e competitive, e si sono fatti progressi sull’efficienza nella produzione e nel consumo dell’energia, per raggiungere gli obiettivi indicati a Parigi non basta, la tendenza in corso deve essere drasticamente accelerata.

Molti studi hanno mostrato che è possibile questa accelerazione, ma sono necessarie nei prossimi anni scelte chiare e coerenti come l’eliminazione sussidi alle fonti fossili, la tassazione delle emissioni inquinanti, gli investimenti sulle energie rinnovabili; azioni che devono essere integrate e sinergiche in tutti i settori chiave della società: la produzione e l’uso dell’energia, i trasporti, l’edilizia, l’agricoltura e gli allevamenti, il sistema industriale. Azioni a tutti i livelli decisionali, gli Stati, le Regioni, i Comuni, le imprese, gli investitori.

Dal punto di vista dei costi (al contrario di quanto sostiene Donald Trump e in linea con quanto hanno dichiarato varie grandi aziende americane), le prospettive sono interessanti: molte analisi hanno mostrato che serviranno ingenti investimenti per favorire questa transizione, ma non tali da danneggiare il sistema economico globale o il benessere delle persone. Inoltre, oltre ai costi ci sono anche i risparmi, ossia costi evitati degli impatti dei cambiamenti climatici, nonché i co-benefici su altri importanti piani, quali la sicurezza nell’approvvigionamento energetico, la riduzione dei costi per l’importazione dell’energia, il miglioramento della qualità dell’aria, la competitività nel settore delle nuove tecnologie, lo sviluppo di nuovi posti di lavoro.

Gli impegni di riduzione delle emissioni climalteranti sottoscritti per ora da tutti gli Stati, come contributi nazionali al raggiungimento dell’obiettivo globale, non sono sufficienti, pur se in molti casi si tratti di impegni molto più ambiziosi che nel passato. Il rilancio di questi impegni nei prossimi anni sarà quindi di vitale importanza per la credibilità dell’Accordo e dell’intero negoziato UNFCCC: è una grande questione geopolitica, che dovrebbe costituire anche una grande questione di politica interna.

Gestire la fuoriuscita dal mondo fossile, le conseguenze sui lavoratori, sui sistemi fiscali, sugli asset finanziari, non sarà facile, ma può essere conveniente; in ogni caso, perdere altro tempo è pericoloso.