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Gli istituti carcerari privati: un business che conviene a pochi americani

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Nel 2013 il GEO Group, uno dei giganti mondiali delle carceri private con sede a Boca Raton, Florida, aveva quasi ottenuto che uno stadio fosse intitolato a proprio nome, quello della Florida Atlantic University. Una specie di fiore all’occhiello per una grande impresa che vuole cominciare ad avere un profilo pubblico anche fuori del proprio settore. Poi le proteste di studenti e gruppi per i diritti civili hanno portato alla cancellazione del contratto di sponsorizzazione.

Rimane il fatto che le carceri e i centri di detenzione per immigrati senza documenti gestiti da privati sono un business fiorente negli Stati Uniti: un’attività che torna sotto la luce dei riflettori quando esplode qualche caso clamoroso di mala gestione o violenza. Oppure, come è accaduto durante l’estate, a causa della crisi dei minorenni entrati negli Stati Uniti senza permessi e subito detenuti in attesa di conoscere il proprio futuro – che nella maggior parte dei casi è il rimpatrio.

Il comparto carcerario privato è anche molto criticato. Non senza ragioni. Quello della gestione dei luoghi di detenzione è infatti un’attività delicata e farci impresa, doverci guadagnare, presenta un numero notevole di aspetti contraddittori: le carceri private sono spesso sovraffollate, o hanno un personale non formato o non adeguato ai bisogni, e questo fa crescere il numero di episodi di violenza. L’ultimo caso riportato è quello della prigione di Boise, Idaho, gestita da Corrections Corporation America e finita nel mirino dell’FBI perché il numero di aggressioni tra detenuti era sette volte più alto di quello delle altre carceri dello stato. A causa di situazioni come questa, i rappresentanti della società civile negli Stati Uniti tengono costantemente gli occhi addosso al settore.

L’idea che anche i centri correzionali potessero essere affidati alla gestione dei privati risale, in epoca recente, agli anni Ottanta. Si comincia per l’esattezza nel 1979, con l’approvazione di una legge che ne rende possibile la privatizzazione. Il primo stato ad approfittarne è il Texas, seguito da Tennessee e Florida. L’espansione dell’industria procede lentamente, e al 1984 solo questi tre stati avevano privatizzato in parte i propri sistemi carcerari. Ma a dieci anni dalla nascita di questo fenomeno, gli stati che avevano approvato una qualche forma di privatizzazione erano già trenta e i detenuti ospitati da carceri private erano diventati 140mila. Gli ultimi dati disponibili sul sito del Bureau of Justice statistics indicano come, nel 2011, le persone rinchiuse in prigioni private fossero l’8,2% dei quasi 1.6 milione detenuti complessivamente negli Stati Uniti, contro il 7,9 dell’anno precedente. In particolare, esse rappresentavano il 6,7% dei carcerati statali e il 18% di quelli federali. I numeri più alti erano in Texas e Florida.

La crescita del settore non ha molto a che vedere con il risparmio o l’efficienza. E neppure con la qualità. Come per altre industrie il cui prodotto è sensibile, l’intreccio tra soldi e politica tipico degli Stati Uniti – dove si fa sempre più stretto – contribuisce a far crescere il settore a prescindere dalla sua competitività con il pubblico. Secondo il Centre for Responsive Politics, la Corrections Corporation America, che vanta più di 60 istituti, 70mila detenuti ospitati, 85mila letti disponibili, ha speso tra il 2008 e il 2013 circa un milione l’anno in lobbying. Geo Group, che conta 98 istituti correzionali di vario ordine e grado, per 77mila letti e 18mila dipendenti, spende invece intorno ai 100mila dollari l’anno direttamente, contribuendo però con cifre molto più alte alle campagne elettorali, assieme appunto al rivale con il quale si spartisce il mercato americano. Dal 2005 a oggi le due compagnie hanno investito nel complesso 15,8 milioni di dollari per influenzare risultati elettorali a livello nazionale e locale, giacché a scrivere le regole sulla detenzione sono gli Stati e a volte le contee. Soldi ben spesi. Le aziende private riescono infatti a spuntare contratti che, in pratica, costringono le autorità ad aumentare il numero di detenuti di loro competenza, garantendo loro anche costi di gestione più bassi. In alcuni casi, arrivano persino a ottenere leggi che impongono la necessità di aprire nuovi luoghi di detenzione privati.

Vediamo tre esempi. Public Interest, un gruppo che fa i conti alle privatizzazioni, ha monitorato 62 contratti di appalto alle carceri private, scoprendo che 41 prevedevano percentuali fisse di occupazione dei letti disponibili, ovvero un minimo di letti occupati (80%), pagati dai soldi pubblici anche nel fortuito caso nel quale il tasso di criminalità di una determinata contea crolli e il numero di persone che finiscono in carcere si riduca di conseguenza in maniera drastica. In Colorado, dove il tasso di criminalità è precipitato negli ultimi anni – forse a causa della legalizzazione della marijuana e della conseguente diminuzione del numero di persone fermate per reati connessi alle droghe leggere – questo meccanismo ha determinato il trasferimento di migliaia di detenuti dalle carceri pubbliche alle private per mantenere fede ai contratti.

Un’altra tecnica per massimizzare i profitti attraverso la benevolenza delle istituzioni ha a che vedere con la distribuzione dei detenuti. Christopher Petrella, dottorando a Berkeley, ha pubblicato la sua analisi dei dati sulla detenzione nelle carceri private, rivelando che in questi istituti di pena il numero di detenuti appartenenti alle minoranze è molto più alto che altrove. Come mai? Semplice, i detenuti afroamericani e ispanici sono in media più giovani (e quindi sani) di quelli bianchi, e quindi meno cari da mantenere. Studiando i dati e i contratti di appalto di quattro stati (Texas, Oklahoma, California, Georgia), Petrella ha scoperto che le corporation private ottengono delle esenzioni specifiche su alcuni tipi di detenuti (malati, anziani, ecc.). E così facendo ci guadagnano sopra, giacché sono rimborsati dagli enti pubblici in maniera uniforme sulla base degli individui di cui si occupano e di quanto questi costino effettivamente.

Infine veniamo ai centri di detenzione per migranti irregolari. Qui la politica c’entra ancora di più. Le scelte di alcuni stati di inasprire le leggi sull’immigrazione hanno prodotto un numero di fermi in crescita costante. Che il comparto delle carceri private abbia attivamente fatto lobby perché tali leggi venissero approvate non è un mistero – il che non vuol dire che le leggi siano il frutto esclusivo delle pressioni delle lobby, ma che le stesse contengono elementi alla fine dei conti favoriscono il complesso carcerario privato.

Durante i primi quattro anni della presidenza di Barack Obama, sotto l’egida dell’ex segretario per la Homeland Security Janet Napolitano, già governatore dell’Arizona, i fermi sono aumentati in maniera esponenziale. A dire il vero si tratta di un trend costante da oltre un decennio, cioè dalla creazione del Dipartimento di Homeland Security in seguito all’attentato alle Torri gemelle del 2001 e allo spostamento delle competenze per la gestione del fenomeno migratorio clandestino dall’ex Immigration and Naturalization Service (INS) al nuovo ministero. Più controlli e più fermi hanno significato anche un uso più frequente dei centri di detenzione gestiti dai privati. Che, a differenza delle prigioni, rappresentano in questo caso la maggioranza del totale, con un aumento dei costi enorme.

Per l’anno fiscale 2014 – e prima della richiesta, presentata dall’Amministrazione al Congresso, di fondi di emergenza per far fronte alla crisi dei bambini indocumentados – Obama aveva proposto di assegnare all’ICE (Immigration and Customs Enforcement) circa un miliardo e 800mila dollari per i centri di detenzione. I soldi servirebbero per mantenere una capacità detentiva di circa 30,5 mila letti per tutto l’anno. Sono molti, specie se si tiene conto che il numero di immigrati in arrivo dalla frontiera messicana è in calo: erano più di un milione le segnalazioni l’anno fino al 2007, nel 2013 sono state circa 350mila.

La notizia che ha però destato scandalo è quella del tetto introdotto in una legislazione del 2009 dal Senatore Robert Byrd, democratico sui generis della West Virginia poi deceduto nel 2010. Legislazione sostenuta da parte della Camera dei rappresentanti a guida repubblicana. Secondo questa misura 34mila letti dei centri di detenzione per immigrati senza documenti devono essere obbligatoriamente occupati in ogni momento – che i flussi crescano o diminuiscano. Questo comporta che la polizia di frontiera debba aumentare i controlli fino a quando non raggiunge quella soglia. È anche capitato che dei deputati chiedessero ufficialmente conto del perché alcune migliaia di immigrati fossero stati rilasciati quando il numero di detenuti era inferiore a 34mila.

Una follia dal punto di vista di un paese che dibatte del proprio deficit da almeno due anni. E una follia dal punti di vista dei diritti umani, quando molte delle persone rinchiuse sono entrate negli USA come minorenni o risiedono e lavorano nel paese da anni (o decenni). Ma una fonte inesauribile di proventi per le due corporation che gestiscono i centri per immigrati privati disseminati lungo la frontiera messicana: da questi Correction Corp l’anno scorso ha guadagnato 205 milioni, il 12% del proprio budget.