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Germania ed Europa di fronte alla crisi migratoria: ragione ed emozione

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La solidale Germania di Angela Merkel – più di un milione di profughi accolti negli ultimi dodici mesi – deve fare i conti con un fenomeno interno che mai avrebbe voluto vedere: la “neo-xenofobia”. Il focolaio è radicato in Sassonia (un Land centro-orientale) ma l’impatto del fenomeno si riverbera a livello nazionale.

Il “Caso Sassonia”, così l’attenta opinione pubblica tedesca ormai chiama il problema. Si tratta della regione dell’ex DDR dove nelle ultime settimane si sono verificati due gravi episodi d’intolleranza: l’assalto ad un bus che portava rifugiati nella cittadina di Clausnitz, con la polizia incapace di gestire la situazione e slogan lugubri lanciati da parte degli assedianti, e l’incendio doloso di un ostello a Bautzen che avrebbe dovuto accogliere altri profughi. La Germania è un paese con un’opinione pubblica vigile e aggiornata, e questo spiega perché gli episodi avvenuti in Sassonia abbiano catalizzato attenzione e dibattito. I tedeschi sanno bene che nel corso dell’ultimo anno si sono verificati, statistiche alla mano, oltre mille di questi incidenti, cresciuti  di cinque volte rispetto al 2014.

Il tema si presta a una declinazione interna tedesca e a una lettura generale europea in tema di migranti.

Quella interna riguarda la mancata elaborazione del nazismo e dunque del nazionalismo etnico nell’ex Germania Est – tema sul quale esiste una vasta letteratura – a fronte di quella che potremmo definire l’incessante elaborazione che avviene invece nell’ex Germania Ovest. Nella zona del Paese che fu sotto controllo sovietico non solo si moltiplicano gli incidenti, ma ha anche il suo radicamento l’associazione xenofoba Pegida (Patrioti europei contro l’islamizzazione dell’occidente), che settimanalmente tiene le sue marce nelle principali città, come Dresda e Lipsia. Da questa diacronia nasce lo sconcerto tedesco.

Alcuni slogan, su tutti “Wir sind das Volk” (noi siamo il popolo), scandito mentre la polizia prelevava a forza un bambino rifugiato siriano da un bus, hanno evocato tempi bui nella memoria e nella mente dei tedeschi; se è vero che lo slogan veniva coniato e lanciato dalle piazze del 1989 contro il regime comunista della DDR, è altrettanto vero che il richiamo al “Volk”, e per estensione al populismo, in Germania è sentito sempre come un campanello d’allarme. Il riferimento a scene viste negli anni Trenta è stato immediato per la coscienza collettiva tedesca; e prontamente intellettuali, artisti, politici e gente comune hanno condannato le aggressioni.

Un episodio di una violenza più sottile, ma comunque violenza, ha visto lo scorso gennaio un sindaco bavarese contrario alla politica di accoglienza della Cancelliera Merkel caricare su un bus un gruppo di rifugiati siriani andando a posteggiare il mezzo di fronte al Reichstag di Berlino. Il messaggio, nemmeno troppo velato, era: tu li vuoi, tu li accogli.

Va ricordato su questo sfondo come,in virtù di un sistema federale ben oliato, Berlino abbia dato ai vari Länder – indirettamente, dunque, anche al sindaco bavarese – i mezzi logistici ed economici per gestire la situazione. Occorre soprattutto avere il coraggio di riconoscere come la politica di Berlino sulla crisi migratoria sia al momento l’unica risposta capace di apportare alla parola e al concetto di Europa una valenza ancora positiva.

C’è poi un punto decisivo che devono tenere in conto anzitutto i molti leader progressisti – Matteo Renzi incluso – che amano sottolineare la differenza tra chi scappa da un conflitto e chi fugge da insostenibili condizioni economiche o ambientali (accogliendo i primi e negando il medesimo diritto ai secondi).Il punto può essere sintezzato nelle parole che la BBC pubblica in calce ad ogni articolo in tema di migranti:“The BBC uses the term migrant to refer to all people on the move who have yet to complete the legal process of claiming asylum. This group includes people fleeing war-torn countries such as Syria, who are likely to be granted refugee status, as well as people who are seeking jobs and better lives, who governments are likely to rule as economic migrants”.

Occorre che le vittime delle migrazioni, ora concentrate lungo la terribile rotta balcanica (ma anche a Calais), abbiano uno status di esseri umani prima ancora che uno status giuridico peculiare. Questo naturalmente non significa che le burocrazie degli Stati, con le loro legittime regole sui “migranti” appunto, non debbano essere parte attiva nella gestione di una crisi umanitaria oggettivamente complessa.

In Germania, ad esempio, con il termine Fehlbeleger si indicano quei soggetti ai quali è stato riconosciuto il diritto d’asilo ma che continuano a vivere negli ostelli di prima accoglienza perché il mercato immobiliare, specie nei grandi centri urbani, ha valori troppo elevati. Le autorità tedesche sono consapevoli del problema, ma non per questo cercano scorciatoie, o cedono alle sirene della xenofobia.

Quando il presidente del Consiglio europeo, il polacco, Donald Tusk, in visita nel Balcani ai primi di marzo ha lanciato ai potenziali migranti il monito “non venite in Europa”, con la specifica che “i migranti economici illegali rischiano le loro vite e i loro soldi inutilmente”, non rende un buon servizio all’ideale del Vecchio Continente. Questo non deve essere perso di vista, nella ricerca di politiche efficaci sui temi migratori.

La Germania, nel quadro delle ultime decisioni prese a Bruxelles, sembra aver giocato d’anticipo e imposto agli altri partner europei due cose: in primo luogo, l’accettazione di Ankara come partner rispettabile (nonostante le enormi contraddizioni incarnate dal governo turco); in secondo luogo, la necessità di un’intesa che superi l’impasse cronica della ricerca di un accordo sulle quote volontarie, di fatto fallita. 

Berlino, in altre parole, spinge affinché alla crisi si cerchi una risposta che allontani dal cuore del Continente i suoi aspetti più  forieri d’intolleranza – ecco perché il dialogo con Ankara è visto come un male minore – e insiste affinché la materia sia disciplinata in modo unitario e non lasciata all’umore dei singoli stati. Ma non dimentichiamo mai che ogni bozza in sede di istituzioni europee ha bisogno di ratifiche successive, e ogni testo concertato rischia di venire superato dai fatti nell’arco di poche ore. 

Non si tratta di un richiamo generico e per di più moralistico ad astratti principi. Si tratta al contrario di guardare in faccia la realtà e il calendario. Attendono l’Europa, tra giugno e luglio prossimi, due passaggi fondamentali per i suoi equilibri futuri: il referendum sul Brexit e la tranche di rimborsi che la Grecia deve alla BCE. Certo, gli spauracchi alla catastrofe in caso di uscita britannica dall’Unione non sono il miglior terreno per scelte razionali. Né lo sono i recenti colloqui tra David Cameron e François Hollande imposti d’urgenza dalla situazione disumana di Calais non sono. L’emotività, che è il preludio delle paure, rischia di compromettere le strategie. Non è strano infatti che proprio Londra e Parigi siano rimaste molto ai margini dei negoziati sulla situazione dei rifugiati nell’Egeo tra gli altri membri dell’UE, la Grecia (in qualità di membro attualmente più esposto) e la Turchia. Le strategie stesse andrebbero poi basate su un criterio di sostenibilità, come dimostra proprio il caso greco: è infatti chiaro sin da oggi che Atene si troverà in difficoltà finanziarie già a luglio.

Sempre calendario alla mano, la situazione potrebbe complicarsi ulteriormente nel caso di un intervento in Libia. Come effetto collaterale potrebbero generarsi nuovi flussi, o gli attuali potrebbero deviare secondo linee imprevedibili che obbligheranno gli stati nazionali europei – peraltro incapaci di trovare un serio accordo sulle quote – alla perenne rincorsa dell’ingestibile emergenza. Ecco perché la necessità di attuare nell’immediato i corridoi umanitari nei Balcani non è una formula vuota o uno slogan buono perpedanti ONG di turno, ma uno strumento giuridico di diritto internazionale,da attuarsi con un preciso protocollo che includa se necessario delle “no-drive zone”, “no-fly zone” ecc. I vertici europei dovrebbero cercare di promuoverlo, invece di lanciare appelli sbrigativi e superficiali simili al “non venite” di Tusk.

L’esempio tedesco, specie a confronto con la situazione terribile di Calais, è un punto di riferimento nella gestione dei migranti. Certo non mancano tensioni e contraddizioni, come il “caso Sassonia” o gli eventi di capodanno a Colonia. Ma la maturità di una civilizzazione si vede proprio nei momenti critici e nella gestione dell’emotività pubblica.