Europa 2024: molte elezioni, probabili contagi
La politica internazionale, ormai ininterrottamente mediatizzata a un livello che supera di molto la capacità delle persone di assorbire il senso e il significato dei singoli eventi, ha assunto caratteristiche da grande parco di attrazioni. Nel suo continuo rutilare in una o nell’altra direzione, c’è sempre un avvenimento particolare capace di calamitare l’interesse di tutti, più o meno momentaneamente, e i cui protagonisti si impegnano più degli altri per attirare attenzione, emozione, competizione. In questo contesto è l’anno stesso in cui siamo entrati, il 2024, a fare da cornice ideale all’appuntamento centrale della politica europea: il voto per il rinnovo del parlamento dell’Unione. Ma quello dell’inizio di giugno sarà soltanto uno degli eventi elettorali di questi dodici mesi, in cui saranno chiamate alle urne miliardi di persone nel mondo. In India e negli Stati Uniti. In Russia e in Indonesia. A Taiwan e in Regno Unito. E appunto, nei 27 stati della UE. Nel nostro pianeta di reti sociali, politiche, commerciali e diplomatiche intessute tra loro senza interruzione, le decisioni degli uni influenzeranno più che mai quelle degli altri. Non ci saranno isole.
Il politologo Robert Kaplan avvertì nel suo omonimo libro di dieci anni fa che dovevamo attenderci una “vendetta della geografia”. Vendetta contro chi ha creduto che la digitalizzazione, le reti sociali, le nuove tecnologie rendessero la realtà sociale omogenea, o le condizioni fisiche ininfluenti. L’Unione Europea, anche in quanto portatrice nel bene e nel male di quell’idea di “Europa” che ancora le offre la legittimità di esistere, ha senza dubbio un conto in sospeso con la geografia. Per la sua dimensione unica: nazionale, plurinazionale e sovranazionale. Perché esiste nell’unico continente non “isolato” del pianeta. Perché gli stati europei sono stati capaci di proiettare nel globo la propria avventura (spesso dis-avventura) nazionale, ma anche la propria eredità culturale e politica, come nessun altro. Che assuma i contorni della cruda vendetta o di una meno spaventosa ma pur sempre inesorabile rivincita, il peso della geografia sta tornando preponderante sulle spalle di classi dirigenti e opinioni pubbliche che per decenni si erano cullate nei miti di autosufficienza, isolamento e superiorità.
L’Europa è infatti alle prese con dei dilemmi divenuti ormai esistenziali, legati a coordinate di tempo e di spazio e condizionanti per il proprio futuro. C’è ad esempio la questione dell’allargamento. La domanda è: l’Unione Europea deve allargarsi ancora? Naturalmente il presupposto è quello di un’architettura politica concepita per comprendere tutto il continente – forse persino oltre. Perché mai l’Ucraina o la Serbia non dovrebbero farne parte? Sarà una “Commissione geopolitica” aveva detto Ursula von der Leyen all’inizio del suo mandato, cinque anni fa. Specificando che comunque sono i singoli Stati a dare il via libera o meno all’ingresso di un nuovo membro nell’UE, la geopolitica vorrebbe che Kyiv e Belgrado diventassero immediatamente parte dell’Unione: la guerra con la Russia e la tensione crescente, etnica ma anche sociale, nei Balcani, non dovrebbero lasciare dubbi sull’opportunità di estendere a questi territori contesi le garanzie di stato di diritto, difesa comune e integrazione economica.
Ma forse la domanda dovrebbe essere se l’Unione Europea può allargarsi ancora. Il consenso delle opinioni pubbliche per l’allargamento non c’è, o è zoppicante. In molti anzi ritengono che la UE sia già troppo larga. Il processo decisionale europeo è già condizionato dai veti e da complessi meccanismi la cui logica e comprensione sfuggono ai non iniziati, e le cui dinamiche sfuggono ai principi della democrazia. Il paradosso è che le regole delle istituzioni europee consentono alle formazioni e ai dirigenti politici nazionalisti di prosperare ai loro danni, senza rischiare di pagarne le conseguenze. Il caso ungherese è il più eclatante, ma le elezioni di giugno mostreranno in maniera lampante da quali partiti i cittadini europei vogliono farsi rappresentare a Bruxelles. Prima di allargare ancora bisognerebbe riformare, dicono i più ottimisti. Mentre i cinici indicano che l’ingresso di membri poco affidabili (ma chi lo è davvero?) potrebbe affrettare il trapasso di un sistema istituzionale forse comunque votato al fallimento, e dunque non ci sarebbe alcuna fretta: teniamocelo così.
L’Europa degli ultimi vent’anni ha visto crescere le formazioni conservatrici e nazionaliste, ma soprattutto ha visto il loro spirito acquistare influenza, di pari passo con il tramonto definitivo delle forme e delle pratiche caratteristiche della sinistra nel secolo passato, che le forze progressiste non riescono a sostituire. Intanto si è eroso anche l’altro pilastro di quasi tutti i sistemi politici europei, cioè la solida presenza di partiti che vedessero la società secondo linee di ispirazione cristiano-democratica: rimpiazzati da altri che ne accettano una visione gerarchica e diseguale. La legge sull’immigrazione adottata dalla maggioranza macroniana nel parlamento francese, con il consenso entusiasta di Marine Le Pen, è solo l’ultimo di una serie di casi che testimoniano la tendenza al ripristino di un sistema di frontiere rigido e selettivo. Sia quelle esterne, attorno ai confini dell’Unione, con il controllo dei passaggi appaltato agli autocrati d’oltremare, dalla Turchia al Marocco e dalla Libia alla Tunisia. Sia quelle interne, dove gli stati stanno ricostruendo tra l’uno e l’altro, una dopo l’altra, materialmente o legalmente, quelle barriere che erano state smantellate con una decisione di portata tanto storica quanto effimera.
Dentro quelle barriere i Paesi europei osservano una crisi demografica per ora senza soluzione: da nessuna parte il tasso di fertilità garantisce un ricambio naturale della popolazione. Dove questa cresce è solo grazie all’immigrazione – anche se Paesi come Francia o Svezia sono molto più vicini al punto di equilibrio demografico (2,1 figli per donna) rispetto agli Stati dell’Europa meridionale o orientale, a serio rischio di rapido spopolamento. Il conseguente invecchiamento – l’età media dell’Europa è già di molto la più alta tra tutti i continenti – ci porta a una condizione sociale mai verificatasi nella storia dell’umanità: quella della maggiore rilevanza politica, economica e culturale degli anziani rispetto ai giovani. Il fatto che questa tendenza non sia affatto considerata un problema rilevante dalle nostre classi dirigenti significa che il cambiamento è stato già “assunto” dall’insieme della cittadinanza europea, tutto sommato disposta nel suo insieme ad accettare una prospettiva di scarsa mobilità, dinamismo e innovazione sociale, cullata dal sentimento di nostalgia e sclerotizzata nel presente.
Se l’Europa si rivolge all’interno anche se non può prescindere dal suo vicinato, c’è un caso in cui la vendetta della geografia assumerebbe i contorni del contrappasso: la regione subsahariana, che sta prendendo sempre più le forme di un “opposto” per l’Europa. Stati ingovernabili e dalle linee di frontiera incontrollabili, crescita esponenziale della popolazione e del rischio climatico che rende varie porzioni di quest’area sempre più inabitabili, presenza di gruppi di potere informali che si contendono risorse naturali e traffici illegali di persone e cose: una regione separata da noi soltanto da due mari, uno di sabbia e uno d’acqua (molto stretto, in alcuni punti). Una regione decisiva per i flussi migratori, per la fornitura di energia, per la presenza di risorse naturali strategiche. Ma su cui l’Unione non ha più quasi alcuna presa, né culturale né politico-diplomatica. Un’ondata di colpi di stato, legittimata presso le opinioni pubbliche locali dalla cacciata di gruppi di potere “compromessi” con l’Europa – in particolare con una Francia accusata di neocolonialismo – ha accompagnato in molti di questi Paesi l’ingresso di attori internazionali politici, economici, militari alternativi, legati alla Russia, al Golfo Persico o alla Cina. E che oggi possono condizionare quella regione tanto importante a proprio vantaggio.
Intanto l’Europa ha chiuso i rapporti con la Russia, mentre nelle pianure d’Ucraina continua una guerra in cui oltre a persone in carne e ossa si combattono due concezioni della società. Quasi chiusi sono i rapporti con l’Iran. Raffreddati con la Turchia e la Cina. La devastante ritorsione israeliana su Gaza dopo il massacro perpetrato da Hamas il 7 ottobre scorso ha il potenziale sufficiente di sofferenza e distruzione per surriscaldare oltre misura le relazioni tra il mondo arabo e i Paesi europei, anche attraverso le consistenti comunità musulmane che ci vivono. Un confronto in cui non dovrebbe essere trascurata, anche stavolta, la componente generazionale: l’età media a Gaza è 17 anni. Così come gli europei dovranno nuovamente riflettere sul proprio rapporto con Israele e con l’ebraismo in generale: una “questione” scomoda, dolorosa e vecchia quanto l’Europa stessa, lontana dall’essere risolta nonostante l’affermazione dello stato di diritto quasi ovunque sul continente. L’inizio all’Aja di un procedimento in cui lo stato ebraico è accusato di “genocidio”, dal Sudafrica – mentre il governo Netanyahu definisce “nazista” Hamas – è solo un assaggio del sovraccarico radioattivo di significati storici e ideologici che la nuova guerra presenta all’Europa.
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L’Oceano Atlantico, d’altro canto, è stato “ristretto” dai due ultimi conflitti. Con l’Europa orientata verso il faro diplomatico di Washington: così orientata che qualcuno ha fatto notare come le classi dirigenti del vecchio continente abbiano penato tanto per costruire la UE, per poi consegnare tutto il potere ottenuto nelle mani degli Stati Uniti. Il rafforzamento del legame transatlantico non è necessariamente una cattiva notizia – può essere anzi molto buona, a condizione di sapere cosa farci. Le elezioni di novembre negli Stati Uniti rischiano di essere per l’Europa più importanti delle proprie, e la obbligano alla campagna elettorale. Il candidato alternativo a Biden ha tifato per la Brexit (2016) e ha assicurato che non muoverebbe un dito per l’Europa, se fosse attaccata (2020). Persino i tanti fan europei di Donald Trump dovrebbero aver realizzato che la sua rielezione sarebbe un brutto colpo anche per loro.
Nel frattempo, invece, i rapporti tra le monarchie del Golfo (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar) e l’Europa sono in fase molto positiva: da un lato c’è l’acquisto sempre più consistente di gas e petrolio, dall’altro ci sono investimenti finanziari sempre più voluminosi che offrono un po’ di respiro a un’economia europea in affanno perenne. Si tratta di uno snodo cruciale per i traffici che dal Mediterraneo potrebbero raggiungere la sempre più emergente India – accantonate le ipotesi delle rotte globali cinesi – e l’area del Sud-Est asiatico: un quadrifoglio tra tante ortiche, il cui valore è testimoniato anche dagli attacchi che le compagnie di trasporto marittimo europee stanno subendo nel Mar Rosso – proprio al centro di quella rotta – dalla guerriglia filo-iraniana degli Houthi, basata in Yemen.
Ma il XXI secolo rappresenta anche il picco dell’importanza globale dell’Africa, tutta intera, dalle sponde del Mediterraneo alle sue propaggini meridionali: una parte del cosiddetto “Sud Globale” che è a contatto diretto con l’Europa. Nella sua unicità che la rende ancora parzialmente estranea ad evoluzioni sociali altrove già radicate. E nella sua pluralità che nonostante tutto ancora non viene colta appieno dall’osservatore. L’Europa non può permettersi di disinteressarsene: gli avanzamenti tecnici e tecnologici che rendono ulteriormente più facile il transito delle persone, delle materie prime, delle merci, dell’energia, rendono i due continenti due vasi comunicanti dal volume potenziale enorme.
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Nessuno può pensare di gestire o controllare, da solo, da una prospettiva unilaterale, i processi geopolitici che ne scaturiranno – e nessuno ne sarà risparmiato. Rischi e opportunità si fronteggiano davanti a noi.