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Egitto, Pakistan, Turchia: la “Lega Saudita” e l’operazione in Yemen

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A conclusione del recente vertice della Lega Araba di Sharm el-Sheikh a fine marzo, il Feldmaresciallo e Presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi ha salutato l’annuncio della creazione (prevista entro quattro mesi) di una forza militare congiunta. Un’iniziativa, a suo giudizio, finalizzata a “proteggere la sicurezza nazionale araba”. Mai come ora, il concetto di “sicurezza nazionale araba” pare tuttavia inappropriato, poiché polisemico e non realmente condiviso. Lo dimostra già l’operazione militare aerea che la coalizione capeggiata da Arabia Saudita ed Egitto sta portando avanti in Yemen, primo test dell’efficacia della nuova coalizione. L’intervento militare – a difesa delle istituzioni della transizione e contro l’avanzata delle milizie sciite degli huthi, alleate a segmenti militari fedeli all’ex Presidente Ali Abdullah Saleh – sta infatti spaccando il mondo arabo.

L’operazione “Tempesta Decisiva”, iniziata lo scorso 26 marzo, vede l’esclusiva partecipazione di Paesi a maggioranza sunnita (tranne il Bahrein, guidato però da una dinastia sunnita): questi hanno deciso di concentrare le loro energie politiche e militari non al contrasto dei tanti gruppi jihadisti presenti in Yemen (Al-Qaeda nella Penisola Arabica, Ansar al-Sharia, forse una “provincia” del sedicente Stato Islamico), ma per colpire il movimento di Ansarullah (gli huthi), minoritario all’interno dello sciismo zaidita yemenita ma sostenuto da Teheran. I governi di Iran, Siria (attualmente sospeso dalla Lega Araba), Iraq e una parte del panorama politico libanese (Hezbollah) hanno da subito tuonato contro “l’aggressione” saudita alla sovranità territoriale di Sana’a, nonostante l’intervento militare sia stato richiesto dallo stesso Presidente ad interim Abdu Rabu Mansur Hadi (sunnita del sud), per decenni Vicepresidente di Saleh e ora suo avversario. L’Iran ha inviato navi da guerra “per la lotta alla pirateria” nel golfo di Aden, dove già stazionano quelle saudite ed egiziane, per presidiare lo stretto del Bab el-Mandeb, strategico snodo commerciale e petrolifero internazionale. La Lega Araba sta pertanto agendo come una “Lega Sunnita”, o meglio una “Lega Saudita”, dato che l’asse fra Riyadh e Il Cairo è la colonna portante dell’intervento in Yemen, nonché della creazione di una forza militare congiunta.

Mesi fa, già prima dell’operazione yemenita, Al-Sisi aveva provato a ritagliarsi il ruolo di “stabilizzatore” regionale, intestandosi il suggestivo progetto di un esercito arabo, posto così al centro del dibattito pubblico mediorientale; forse, si trattava anche del tentativo di spostare l’attenzione da una dipendenza economica dal resto della regione (oltre che, come sempre, dagli USA) divenuta ormai vistosa (23 miliardi di dollari versati da Riyadh, Abu Dhabi, Kuwait City dal luglio 2013). Per l’intervento contro gli huthi, l’Egitto è ora il principale alleato dell’Arabia Saudita al di fuori dell’asse monarchico (Qatar, Emirati Arabi, Kuwait, Bahrein, più Giordania e Marocco). In questa fase, la dipendenza fra Riyadh e Il Cairo sembra però essere reciproca. Gli egiziani hanno estrema necessità della liquidità proveniente dalle tre monarchie, oltretutto priva di condizionalità politica (a parte la repressione della Fratellanza Musulmana, scelta che comunque ha fin qui trovato Al-Sisi molto d’accordo); tuttavia, in tema di sicurezza, il regno wahhabita ha altrettanto bisogno del coinvolgimento egiziano, per aumentare il potenziale militare della coalizione, specie delle forze di terra (il cui utilizzo in Yemen potrebbe peraltro avere risultati disastrosi).

L’Arabia Saudita ha pertanto provato a convincere il Pakistan, suo tradizionale alleato militare nonché destinatario di ingenti aiuti finanziari, a partecipare all’intervento militare yemenita. Nel 2014, Riyadh e Islamabad hanno siglato un nuovo, vasto accordo di difesa (intelligence, addestramento, produzione industriale). Il Premier pakistano Nawaz Sharif ha però temporeggiato, esortando il Parlamento a discutere con attenzione l’argomento: l’assemblea ha così votato all’unanimità per la neutralità del Pakistan che – almeno formalmente – non darà così appoggio militare alla coalizione sunnita. La risoluzione approvata impegna tuttavia il Paese a proteggere l’integrità territoriale saudita (dunque non esclude l’impiego di soldati pakistani lungo la frontiera saudita-yemenita). Non è un caso che il Ministro degli Affari Esteri iraniano, Muhammad Javad Zarif – di ritorno dall’accordo preliminare di Losanna suldossier nucleare – sia volato proprio a Islamabad (oltre che nel sultanato dell’Oman, rimasto come suo consueto neutrale). Varie considerazioni spiegano la prudenza pakistana in questo frangente: le forze armate pakistane sono già mobilitate nella lotta contro i talebani lungo il (non)confine con l’Afghanistan, in Waziristan; il Paese vive una forte tensione interconfessionale e gli attentati alla minoranza sciita sono in aumento; il Pakistan confina con l’Iran ed è perciò interessato a non inasprire i rapporti con Teheran, con cui condivide un confine permeabile, crocevia per terrorismo, insorgenza di gruppi di etnia balucia e traffici illeciti (soprattutto droga). C’è poi la questione dell’approvvigionamento energetico, per cui il governo pakistano cerca un difficile equilibrio fra le due rive – araba e persiana – del Golfo (mentre la Cina si avvia a costruire un gasdotto per il gas iraniano proprio attraverso il Pakistan).

Nonostante il pressing di Riyadh, anche la Turchia si è finora limitata all’appoggio politico nei confronti dell’intervento militare in Yemen. D’altronde, al netto delle divergenze di valutazione sul futuro del regime di Bashar al-Assad in Siria, l’Iran è il primo fornitore di petrolio della Turchia che è dunque interessata a mantenere relazioni bilaterali stabili con il vicino. In più, con la concreta prospettiva che vengano rimossele sanzioni internazionali sull’Iran, la Turchia vuole intensificare la propria presenza nel mercato commerciale ed energetico iraniano. È stato recentemente firmato il via libera al gasdotto Tanap che porterà il gas iraniano e azero nel Mediterraneo (via Turchia). Forse, dopo il fallimento della politica estera turca pro-Fratellanza Musulmana nei confronti dei governi usciti dalle rivolte arabe e le tensioni interne, Ankara sta provando a rivitalizzare la dottrina degli “zero problemi con i vicini” elaborata dall’attuale Premier Ahmet Davutoğlu e dunque, pur appoggiando le scelte di Riyadh sullo Yemen, non intende alimentare nuove frizioni con Teheran.

Il tentativo di mediazione fra le parti convolte nella crisi yemenita potrebbe passare proprio attraverso Oman, Pakistan e Turchia; in particolare, Muscat – che non partecipa alla coalizione militare – ha da sempre buoni rapporti sia con i sauditi che con gli iraniani. L’azione del Sultano Qaboos (appena rientrato in patria dopo mesi di cure in Germania per malattia) facilitò peraltro anche l’inizio del disgelo fra Teheran e Washington nell’estate 2013.

Certo, il quadro diplomatico resta intricato: negli ultimi giorni, il Segretario di Stato americano, John Kerry, ha speso parole dure sul sostegno iraniano alle milizie huthi. Washington ha intanto annunciato la consegna di materiale bellico alle monarchie del Golfo, rifornimenti in volo agli aerei della coalizione, e la condivisione di dati di intelligence. Resta però il fatto che tra Siria e Iraq, dove USA e monarchie del Golfo bombardano insieme il “Califfato”, l’appoggio di terra delle milizie sciite irachene e dei reparti speciali iraniani guidati dal Generale Qassem Suleimani è stato però decisivo – prima dell’intervento dell’esercito di Baghdad – nella riconquista di Tikrit. Due approcci paralleli e apparentemente contraddittori che potrebbero divenire ingestibili per la Casa Bianca.

Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha deciso un embargo sulle armi destinate ai miliziani sciiti e sottoposto a sanzioni (travel ban e asset freeze) il capo di Ansarullah, Abdel Malek al-Huthi e Ahmed Ali Saleh, figlio dell’ex Presidente; la Russia si è astenuta dal voto. Nel frattempo, mentre il giovane Ministro della Difesa saudita, Muhammad bin Salman (figlio del Re), diventa il volto mediatico della propaganda reale sull’operazione aerea in Yemen, l’alleanza huthi-Saleh sembra in grado di avanzare su nuovi obiettivi; Aden rimane in bilico tra i due fronti e la sigla locale di Al-Qaeda (AQAP) controlla parte di Mukalla, nella zona petrolifera di Hadhramaut. Sul campo, insomma, qualunque ipotesi di mediazione pare assai lontana, così come il successo saudita e della nuova coalizione sunnita.