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Economia globale in ripresa, ma i punti interrogativi restano

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L’economia globale nel 2017 presenta un andamento alquanto positivo, in linea con l’affievolirsi dei numerosi rischi che avevano frenato la fiducia di mercati e investitori nel corso del 2016. Permangono tuttavia una serie di elementi, sia strutturali che congiunturali, che contribuiranno a condizionare la crescita di alcune aree importanti, in primis i giganti dell’economia mondiale: USA, Cina ed Europa.

Nel 2016 e ancora all’inizio del 2017, si manifestava un ampio spettro di rischi che preoccupava analisti e imprenditori:

1) Il rallentamento della globalizzazione, il cui sintomo era la stentata crescita del commercio globale unito al ridimensionamento del moltiplicatore commercio mondiale/Pil.

2) Il significativo rallentamento della crescita in Cina e in molti emergenti, soprattutto Russia e Brasile, reso ancor più preoccupante dal livello di indebitamento delle imprese e dalla conseguente possibilità di un crack del settore bancario cinese.

3) Il crescente appeal delle formazioni populiste che sulla scia delle problematiche legate ai flussi migratori, dopo aver determinato l’uscita del Regno Unito dall’UE a giugno 2016, avevano contribuito significativamente all’elezione di Donald Trump e minacciavano di segnare la fine dell’integrazione europea con le elezioni in Austria, Olanda e Francia.

4) L’atteggiamento protezionista della politica economica del neo-eletto Trump.

5) Le prospettive di una “hard Brexit” portate avanti da Theresa May, con le relative ripercussioni sia economiche che politiche sull’Europa.

6) Vari focolai di tensione geo-politica, come quello tra Iran e Arabia Saudita, e nei quadranti russo-ucraino e mediorientale-nordafricano.

Oggi la situazione appare molto meno preoccupante. Nei primi mesi del 2017 il commercio mondiale ha ripreso a crescere a ritmi tra il 5% e il 6%, spinto proprio dala domanda interna cinese e degli altri emergenti. Il rischio del protezionismo targato USA appare molto mitigato così come l’ipotesi di una Brexi “estrema”;   allo stesso tempo l’integrazione europea ha superato la prova elettorale. Anche le tensioni geo-politiche, pur ancora presenti, sembrano per ora stabilizzate, con l’unica eccezione significativa della crisi USA-Nord Corea.

In questo quadro complessivamente sereno, la crescita del Pil mondiale nel 2017 si attesterà intorno al 2,8%-3%, in aumento di almeno mezzo punto percentuale rispetto al 2016. In altre parole, la situazione economica è in notevole miglioramento per quasi tutti i principali protagonisti dell’economia globale. Uniche parziali eccezioni appaiono essere gli USA, che nonostante i dati positivi provenienti dal mercato del lavoro presentano una crescita di poco superiore al 2016, e il Regno Unito, il cui tasso di crescita del pil, ridimensionato rispetto alle previsioni, appare comunque essere in linea con quello del 2016.

Se per il Regno Unito questa performance non eccellente è addebitabile alle conseguenze del calo di fiducia e all’incertezza dovute alla Brexit, per gli USA le ragioni che spiegano le difficoltà attuali sono più complesse e gettano un cono d’ombra sulle possibilità dell’economia mondiale nei trimestri futuri.

L’euforia iniziale dei mercati, sulla scia delle promesse elettorali di Trump di riduzione del carico fiscale e aumento degli investimenti pubblici, sta cedendo il passo a un sentimento di attesa preoccupata: dopo sette mesi, delle misure promesse non molto è stato finora realizzato (si veda il grafico 1, elaborato da Oxford Economics).

Grafico 1

Le misure proposte da Trump (tagli di tasse, aumento di spesa per investimenti) non sono compatibili con l’attuale squilibrio di bilancio pubblico americano, soprattutto adesso che la riforma sanitaria e i risparmi derivanti dalla eliminazione dell’Obamacare non è stata approvata dal Congresso: il rapporto deficit/pil è da almeno 15 anni stabilmente superiore al 3%, spesso anche di molto, e dunque non permette l’apertura sostenibile di grandi capitoli di spesa o di significativi tagli alle tasse. Trump prevede di riassestare lo squilibrio dovuto alla coppia tagli fiscali-maggiori investimenti grazie soprattutto all’impatto sulla crescita delle sue stesse misure: un impatto che il suo entourage ha  decisamente sovrastimato. Secondo le stime di Oxford Economics, basate su dati del Congressional Budget Office e dell’Office for Management and Budget, per raggiungere la neutralità fiscale (ossia, affinchè il taglio di tasse proposto sia in grado di “pay for itself”) gli USA dovrebbero crescere per i prossimi dieci anni mediamente oltre il 5% all’anno – (grafico 2).

Grafico 2

L’irrigidimento del Congresso e della sua componente repubblicana moderata, che rende il programma di improbabile approvazione, è stato causato anche dall’atteggiamento del Presidente che ha deciso, senza discuterne con il Congresso, di eliminare o rivedere alcuni paletti del commercio internazionale, quali l’accordo di Parigi sul clima, il TPP e soprattutto il North-American Free Trade Agreement (NAFTA).

Dunque, lo stimolo di bilancio voluto da Trump sarà rinviato come minimo al 2018, e la sua portata sarà comunque molto minore di quanto i mercati e gli investitori si attendevano ad inizio 2017. Molti analisti ritengono che il pacchetto di misure finale, oltre a non avere alcun impatto sul 2017, varrà intorno al 10% di quanto indicato in campagna elettorale, sia per il 2018 che per gli anni successivi. Gli USA sembrano quindi avviarsi di nuovo verso quel 2% di crescita (o anche inferiore) che ne rappresenta l’output potenziale attuale, e che Trump aveva promesso di innalzare al 3% o addirittura al 4%.

Perciò, se nel 2017 la situazione economica mondiale appare in buona forma, già nella parte finale di quest’anno il venir meno dell’atteso stimolo di bilancio USA potrebbe iniziare a farsi sentire. Un’eventuale, probabile, debolezza degli indici borsistici, obbligazionari e delle merci a New York e Chicago si riverbererebbe negativamente su tutti i listini mondiali, con i paesi emergenti a pagarne di nuovo il prezzo più alto.

Inoltre, di fronte a una crescita dell’economia USA più moderata rispetto alle aspettative attuali della stessa Fed, è probabile che il percorso di “normalizzazione” della politica monetaria americana, , diventi molto più lento di quanto finora riscontrabile nelle minute del Federal Open Market Committee. Da un lato i tassi di interesse sui Fed Funds si muoveranno nei prossimi due anni al rialzo più lentamente rispetto a quanto indicato oggi dalla Fed, dall’altro la vendita (per ora solo annunciata) degli asset presenti nel bilancio della Fed dopo anni di Quantitative Easing (QE) sarà rinviata, o quantomeno ridotta in maniera importante. Ne scaturirà un probabile indebolimento della divisa americana, soprattutto nei confronti dell’euro.

Il rapporto euro/dollaro in questa fase è determinato fondamentalmente dalle aspettative sulla tempistica del rientro dai rispettivi QE delle banche centrali. Se la Fed ha avviato il suo percorso di “normalizzazione” già dal 2016, la BCE conferma la sua intenzione di proseguire negli acquisti di asset finanziari e di mantenere ancora a lungo i tassi sui minimi attuali, nonostante i buoni segnali provenienti dall’economia reale e dagli indicatori di fiducia.

Questo atteggiamento ancora espansivo della BCE, legato allo scarso impatto che finora la crescita dell’attività delle imprese e dell’occupazione hanno avuto su un’inflazione considerata troppo bassa, fa pensare che l’istituto di Francoforte non ritenga la ripresa europea (intorno al 2% annualizzato nei primi sei mesi dell’anno) del tutto consolidata, anche se più forte che in passato. Le perplessità della BCE sul ritorno dell’inflazione intorno ai livelli obiettivo del 2% sono probabilmente dovute all’andamento del prezzo del petrolio, oggi sotto i 50$ al barile e ancora una volta più debole di quanto previsto dalla maggior parte degli operatori.  E anche ai dati contraddittori (pur se in miglioramento) provenienti dal mercato del lavoro e allo stesso andamento dell’euro che se dovesse confermare la sua forza agirebbe da calmieratore ulteriore dei prezzi e dell’attività economica.

Considerando che il Giappone, pur muovendosi attualmente al di sopra del trend degli ultimi venti anni, è ancora alle prese con tassi di crescita del Pil molto contenuti (1,3-1,4% stimato per il 2017), ne risulta che i tre attori principali dell’area OCSE (USA, Eurozona, Giappone) si stanno muovendo nel 2017 intorno ai picchi di crescita dell’attuale ciclo economico. Ove questo fosse confermato nei prossimi trimestri, sarebbe anche confermata per l’area dei paesi avanzati l’ipotesi “New Normal” (anche definita più pomposamente stagnazione secolare), secondo la quale invecchiamento della popolazione e scarso sviluppo di tecnologie “breakthrough” sono i fattori fondamentali che non consentiranno  alle nostre economie di crescere a ritmi in linea con i decenni precedenti alla crisi del 2008.

Per rafforzare la crescita mondiale nel medio-lungo termine non resta allora che guardare ai paesi emergenti e in particolare a quelli dell’area asiatica, con la Cina a fare ancora da portabandiera dello sviluppo economico. La crescita cinese continua nel solco del programma approvato nel XVIII Congresso del PCC del 2012 e confermato nei successivi Plenum del Partito Comunista. Dal lato delle politiche economiche, il programma si distingue per la volontà di ridurre il peso di investimenti ed esportazioni come volani dell’economia cinese a favore di consumi interni e servizi, con il conseguente corollario della necessità di guidare il paese verso tassi di crescita meno esplosivi che nel decennio precedente. L’ultimo Plenum di ottobre 2016 aveva indicato per il 2017 un aumento del Pil nel range 6,5%-7%, in linea con la media degli ultimi tre anni – i dati dei primi due trimestri hanno confermato questo andamento (6,9%).

I punti critici del paese rimangono lo squilibrio domanda/offerta presente nel mercato immobiliare che determina prezzi gonfiati nelle città più grandi, il debito delle imprese non finanziarie (ora al 142% del Pil – grafico 3) e la fuoriuscita di capitali che ha eroso in misura massiccia  le riserve valutarie, passate da 4 a meno di 3 trilioni di dollari in meno di due anni. Ognuno di questi elementi, e in particolare il debito delle imprese non finanziarie, è in grado di far deragliare l’economia cinese, con rischi anche sul piano politico interno. Tuttavia le redini dell’economia cinese appaiono saldamente in mano alle autorità di politica economica e monetaria, e le deviazioni dal solco programmato sono state gestite negli ultimi decenni con perizia e cautela. Anche nel 2016 le autorità hanno attuato un piano di intensi stimoli fiscali e di espansione del credito per far ripartire l’economia che mostrava segnali di rallentamento (il 2016 è stato secondo solo al 2009 in termini di aumento del debito pubblico cinese) ma in questo inizio di 2017, visti i dati positivi, le autorità hanno già iniziato a ridurre la portata degli stimoli, sia monetari che di bilancio. Dal canto loro, le riserve valutarie sono aumentate da inizio anno di circa 60mld di dollari riportandosi sopra i 3050mld di dollari, in conseguenza di una oculata gestione dell’andamento del tasso di cambio da parte della Banca Centrale Cinese.

Grafico 3

Nell’autunno 2017 si terrà il XIX Congresso del PCC, che secondo le previsioni confermerà le linee guida in campo economico e ambientale, pur nell’ambito di una revisione importante della struttura di potere interna al Partito.

Anche negli anni futuri la Cina manterrà quindi il suo ruolo di motore della crescita globale, con un impatto particolarmente positivo sull’intera area asiatica. I tassi di crescita attesi per le economie asiatiche al di fuori di Cina, India e Giappone sono nell’ordine del 5-6% per almeno i prossimi cinque anni. Pur partendo da livelli di reddito bassi, si tratta comunque di un’area con una popolazione di oltre un miliardo di persone, con livelli di professionalità crescenti e sempre più diffusi.

In altri termini, le tanto sbandierate politiche protezionistiche da adottare contro i sistemi economici di quest’area del mondo  si ritorcerebbero, dato l’ormai solido dinamismo interno all’area, principalmente contro chi le volesse adottare.