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Dubbi e certezze americane in Ucraina

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L’atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti della crisi ucraina è evoluto assieme alla situazione sul campo. All’indomani dell’invasione del 24 febbraio, il presidente Biden aveva condannato la Russia, promesso ogni aiuto possibile e parallelamente si era affrettato a spiegare di non volere in nessun modo inviare truppe. Allo stesso modo europei e statunitensi hanno è evitato di implementare la no-fly zone ripetutamente richiesta all’inizio dal presidente Zelensky. Ma il tono della Casa Bianca è mutato dopo che gli ucraini, con l’apporto delle armi e dell’intelligence occidentale, hanno fermato l’avanzata russa e messo in luce le debolezze delle forze armate di Mosca.

Un raduno di ucraini-americani davanti al Consolato russo di New York

 

La svolta americana è ben fotografata dalla dichiarazione del Segretario alla Difesa Austin che in visita a Kiev dichiarava che l’obbiettivo era quello di aiutare gli ucraini a vincere e indebolire la Russia in maniera permanente, affinché non potesse ripetere azioni come quella condotta in Ucraina. Nancy Pelosi, anche lei in visita a Kiev, esprimeva un concetto simile: “Gli Stati Uniti non sono interessati a situazioni di stallo. Non siamo interessati a tornare allo status quo. Gli Stati Uniti sono qui per vincere”. Lo scorso 26 aprile è stata la volta del vertice di Ramstein, che riuniva 40 paesi e dove Austin ha parlato di una coalizione di “nazioni di buona volontà” che si riuniranno mensilmente per “intensificare” una campagna internazionale per vincere “il combattimento di oggi e quelle che verranno”.

Le implicazioni possibili di questa scelta sono diverse: a Washington c’è chi sostiene che l’unico modo di ragionare con Putin sia quello muscolare e che solo così lo si porterà a trattare seriamente, mentre altri mettono in guardia dal pericolo di una escalation – oggi o in futuro. Certo l’atteggiamento americano rende più semplice l’equidistanza preoccupata della Cina: se la guerra diventa anche uno scontro ideologico tra potenze, la posizione un po’ pilatesca di Pechino trova una legittimazione.

Negli Stati Uniti questo passare dalla posizione più cauta a quella più assertiva ha generato una discussione con punti di vista molto diversi in quel mondo accademico, dei think-tank e dei media che si può dire parte importante nell’elaborazione e nell’analisi della politica estera USA – o che almeno ne conosce le discussioni.

 

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Ma è difficile fare una divisione netta tra realisti e idealisti, tra chi è fautore di un approccio cauto che premono per la diplomazia e chi ritiene che la guerra occorra vincerla, che sia per ragioni ideali di competizione tra il modello autoritario e quello democratico o perché questo è nell’interesse degli Stati Uniti. Il dibattito infatti non è solo teorico, ma si svolge nel pieno di una guerra i cui esiti restano molto incerti. Qui e la troviamo voci isolazioniste, come il senatore repubblicano e libertario Rand Paul, che ha cercato di bloccare gli aiuti statunitensi all’Ucraina anteponendo il nuovo deficit alle questioni internazionali, ma fintanto che truppe americane non sono direttamente coinvolte, il pubblico sembra condividere le scelte dell’amministrazione Biden.

Le divisioni non sono tanto tra democratici e repubblicani, neppure in Congresso, quanto piuttosto tra diverse scuole di pensiero e punti di vista non omogenei su quali debbano essere le priorità americane. I focus sono diversi: chi collega questa guerra all’ipotesi di un nuovo ordine mondiale, chi si concentra sul pericolo nucleare e chi sulla crisi regionale in Europa orientale.

Alexander Vidman, ex militare e membro del National Security Council, di origini ucraine e divenuto noto per aver testimoniato nel processo di impeachment contro Donald Trump, sostiene che la strada sia quella di sostenere con ogni mezzo l’Ucraina e convertire gli alleati europei riluttanti. Su Foreign Affairs, si scaglia contro chi a Washington chiede a Kiev di fare concessioni territoriali. Con accenti più o meno accesi, questa è la posizione di chi sostiene l’impegno americano fino alla vittoria “totale” di Kiev.

Sul Washington Post, Brendan Rittenhouse Green e Caitlin Talmadge hanno un’opinione opposta e oltre a temere una possibile escalation segnalano il rischio di trascurare questioni più importanti per gli interessi americani. “La Russia rimane una minaccia per l’Occidente, ma come il Pentagono ha esplicitamente detto al Congresso passa in secondo piano rispetto alla competizione con la Cina – scrivono l’esperto del think-tank Cato Institute e la docente di Security Studies a Georgetown – Non dovremmo lasciare che l’errore di Putin di invadere l’Ucraina ci spinga a commettere lo stesso errore: spendere risorse e attenzioni preziose in una guerra per procura contro un avversario che si è già inflitto grosse ferite”.

Ma che soluzione prospettano coloro che spingono per la strada diplomatica? All’estremo del ventaglio di opinioni troviamo l’economista Jeffrey Sachs, che pure ha giocato una parte nel suggerire quella shock therapy alla Russia post-sovietica: cura economica da cavallo che ha contribuito alla concentrazione del potere nelle mani degli oligarchi e alla conseguente svolta illiberale. Secondo Sachs la finestra diplomatica apertasi a marzo, durante i colloqui diretti, e l’idea di alcune concessioni reciproche, sono l’unica strada praticabile: “neutralità, garanzie di sicurezza, un quadro per gestire la Crimea e il Donbass e il ritiro della Russia” dovrebbero essere gli argomenti sul tavolo.

Ross Douthat, columnist conservatore del New York Times, immagina tre scenari: una guerra di posizione e trattative che congelino lo status quo, una guerra di posizione e di trincea senza trattative, un’avanzata ucraina che porta il rischio di una reazione disperata (e nucleare) di Mosca – anche se questo “diventerà un problema solo se l’Ucraina inizierà a fare progressi sostanziali. Ma dal momento che stiamo armando gli ucraini su una scala che sembra destinata a rendere possibile una controffensiva” è bene che una discussione su come e cosa fare avvenga ai massimi livelli del governo degli Stati Uniti”. E, aggiungiamo noi, sarebbe bene che di queste discussioni fossero condivise con gli alleati europei che in termini di rischio nucleare, alimentare ed energetico hanno molto più da perdere da questa guerra che non gli Stati Uniti.

Una guerra e i suoi esiti hanno anche degli effetti psicologici e oltre agli obbiettivi tangibili occorre considerare “quelli intangibili, racchiusi in parole come umiliazione, dignità, reputazione, punizione e rivendicazione. La guerra è fatta di passioni e idee, non meno che di fette di territorio. Ignorare l’importanza di queste emozioni, che sono altrettanto reali degli scopi più immediati dell’operazione militare sarebbe un errore” scrive Eliot A. Cohen, Professore alla Johns Hopkins University School of Advanced International Studies ed ex consigliere della Segretario di Stato Condoleezza Rice, che segnala come la Guerra fredda e il contenimento fossero una politica rivolta a un avversario razionale mentre in questo caso si avrebbe a che fare con una belva ferita, “un combinazione bizzarra di nichilismo e nazionalismo”.

Il commentatore del New York Times Thomas Friedman ha battuto e ribattuto per ben due settimane di seguito, su vari media, sulla maggiore cautela che Biden dovrebbe adottare: “Dobbiamo attenerci il più possibile al nostro obiettivo originario, limitato e chiaramente definito, di aiutare l’Ucraina a espellere il più possibile le forze russe o di negoziare il loro ritiro quando i leader ucraini riterranno che sia il momento giusto”. Un pensiero che anche la direzione del quotidiano sembra condividere quando critica le “frasi bellicose che non facilitano in nessun modo i negoziati” pronunciate da figure chiave dell’amministrazione, chiede a Biden di definire meglio la strategia e “anche chiarire al Presidente Zelensky e al suo popolo che c’è un limite a quanto gli Stati Uniti e la NATO potranno opporsi la Russia, alle armi, al denaro e al sostegno politico che possono convogliare. È indispensabile che le decisioni del governo ucraino si basino su una valutazione realistica dei propri mezzi (…) Affrontare questa realtà può essere doloroso, ma non è acquiescenza. È questo che i governi hanno il dovere di fare, non inseguire un’illusoria vittoria”.

Anche Richard Haass è tra le voci relativamente critiche sulla politica della Casa Bianca. Il direttore del Council on Foreign Relations sostiene che la strada debba essere quella della diplomazia, mettendo bene in chiaro che ci sono limiti oltre i quali Mosca non può andare. Al contempo scrive in un secondo articolo che Washington dovrebbe evitare di parlare di “regime change”, e chiarire che “contrariamente alle dichiarazioni del Segretario alla Difesa Lloyd Austin, l’obiettivo dell’America non è quello di usare la guerra per indebolire la Russia”. L’obbiettivo, Haass non è il solo a sostenere questa tesi, dovrebbe essere quello di un congelamento della situazione territoriale pre-invasione, accompagnato da un lavoro diplomatico per costruire un migliore scenario futuro: “Alcuni obbiettivi potrebbero essere meglio perseguiti attraverso la diplomazia e l’alleggerimento selettivo delle sanzioni” o il loro inasprimento in caso di un atteggiamento russo che non cambi.

Nei nuovi talking points della Casa Bianca resi noti dal Financial Times su quali siano la strategia e gli obiettivi in Ucraina permane un certo tasso di vaghezza, ma alcune delle preoccupazioni che abbiamo provato a riassumere in questo articolo vengono registrate. Ad esempio leggiamo: “Siamo impegnati per dare all’Ucraina una mano il più forte possibile sul campo di battaglia, per garantire una posizione di forza al tavolo dei negoziati”. La stessa scelta del presidente Biden di non inviare missili di medio raggio con i quali l’esercito ucraino avrebbe potuto colpire il territorio russo va in questa direzione.

Un aspetto singolare di questa discussione americana è quanto poco si nomini l’Europa, che pure è il luogo in cui la guerra si combatte, l’alleato che potrebbe precipitare in una grave crisi energetica, e che rischia di subire le conseguenze più pesanti delle sanzioni, e della crisi alimentare generata dall’assenza sui mercati dei cereali ucraini e russi. Le difficoltà e i compromessi fatti per approvare le sanzioni sul petrolio russo, le differenze di accenti dei leader europei più autorevoli e pesanti (Scholz, Macron, Draghi) hanno probabilmente consigliato di ricalibrare un po’ la posizione americana.

 

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