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Dove il buonsenso non basta: la comunicazione in circostanze di crisi

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Il Coronavirus ha già prodotto un risultato certo: far entrare la nostra vita in quella memoria collettiva organizzata che chiamiamo Storia. La paura, le morti, lo stravolgimento dell’economia planetaria, il reset delle abitudini quotidiane, hanno modellato un inedito piano di realtà, nel quale ciascuno si muove senza potersi avvalere del conforto dato dall’esperienza.

Ciò vale anche per le classi dirigenti, chiamate a inviare messaggi ai propri stakeholder all’interno di un contesto mediatico ampio e ingovernabile come non mai. Una sfida nuova, da affrontare senza poter contare su precedenti, anche solo analoghi e che non si risolve ricorrendo al buon senso o alla buona volontà. Quel che occorre, invece, è mestiere: si chiama comunicazione di crisi e, come tutti i mestieri, poggia su regole, logiche e strumentazioni.

Vediamone l’architettura complessiva e gli insegnamenti che possiamo trarre dalla crisi attuale.

Un fermo-immagine dell’ormai celeberrimo fuori onda del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella

 

Comunicazione è una di quelle parole che, nella società odierna, vive fortune contrapposte.

Da un lato, è un assoluto dominus della contemporaneità: che quella in cui viviamo sia una società della comunicazione è un dato di realtà tanto evidente da suonare banale. Dal lato opposto, la parola patisce un certo “annacquamento di senso”, dovuto all’abbondanza di contesti e situazioni nelle quali è usata: comunicazione pubblica, politica, interna, organizzativa, di marketing, di crisi, istituzionale, interpersonale – e chissà cos’altro dimentichiamo. Last but not least, la comunicazione patisce la “sindrome del commissario tecnico”: così come siamo tutti allenatori della nazionale di calcio, così ogni persona di sufficiente scolarizzazione ritiene di essere in grado, alla bisogna, di impostare e gestire dei buoni processi comunicativi.

Ovviamente non è così. La vita abbonda di esempi di cattiva comunicazione: nella pubblicità, nelle relazioni industriali, nel rapporto amministrazione-cittadino e così via. Proprio quando si è di fronte ad esempi di un cattivo comunicare, sorge il sospetto che la comunicazione sia un mestiere e non un’inclinazione personale, né tanto meno un talento individuale (sebbene, all’abbisogna, la sua presenza non guasti). Un mestiere e cioè: metodo, tecniche e strumenti, ciascuno con le proprie peculiari regole d’uso. Un mestiere con un che di non codificato, di una risorsa individuale che non si compra sul mercato: la cultura. È una dotazione che chi fa della comunicazione una professione deve possedere, perché è l’unica in grado di conferire quel quid necessario a fronteggiare le devianze, che è un certo tipo di occhio sul mondo.

Sgombrato il campo dall’idea che chiunque possa fare il comunicatore, prima di affrontare l’infida giungla della comunicazione di crisi, resta da chiarire un aspetto didascalico fondamentale: il modello-base della comunicazione.

C’è qualcosa d’ironico nel fatto che una materia considerata sostanzialmente umanistica si sorregga su un’impalcatura teorica matematica. Si deve infatti a due matematici statunitensi – Claude Shannon e Warren Weaver – la definizione della struttura funzionale dei processi comunicativi. Si tratta di un modello celeberrimo, elaborato nel 1949, il cui campo d’interesse primario era la trasmissione radio ma il cui carattere universale ne fece presto lo schema di base dei processi comunicativi di ogni genere. Semplificando all’osso, i due chiarirono che ogni comunicazione ha una fonte emittente (chi parla), una ricevente (chi ascolta), un canale che li connette, mediante un dispositivo di trasmissione e uno di ricezione, veicolando un messaggio. Quest’ultimo è oggetto di un procedimento di codifica e decodifica: il primo è a carico dell’emittente, che codifica ciò che deve trasmettere; il secondo spetta al ricevente, che decodifica ciò che riceve. In mezzo, le cento interferenze possibili, che i due matematici chiamarono rumore. Mettiamo per un momento da parte questo modello teorico, che tornerà utile a breve.

La comunicazione in situazioni di crisi è una fattispecie che pone di fronte a un trivio; tre mondi differenti, legati a tre categorie di crisi possibili: (i) la salute e sicurezza pubblica (es. l’11 settembre 2001); (ii) la reputazione d’impresa (es. la Mercedes Classe A che si ribalta alla prova dell’Alce); (iii) la situazione economico-finanziaria (es. Banca Etruria). Il primo caso, manco a dirlo, è ampiamente il più complesso di tutti e l’esperienza che stiamo vivendo con il Coronavirus lo dimostra.

Esistono regole? Sì, di ordine generale. La comunicazione di crisi è, infatti, una branca verticale delle relazioni pubbliche che, sebbene sviluppata con prevalente riferimento a circostanze di natura aziendale, costituisce il bacino di conoscenze cui attingere, mutatis mutandis, per affrontare crisi pubbliche. Il citato modello Shannon-Weaver è utile a delineare i connotati della buona comunicazione pubblica di crisi:

  • l’emittente: non può parlare chiunque. Parla solo uno (l’opzione preferibile, un portavoce ufficiale) o pochi soggetti: nel caso, solo quelli aventi titolo e ruolo nella circostanza specifica (es. capo della Protezione Civile);
  • il ricevente: la platea degli stakeholder va considerata nelle singole componenti, così da meglio tarare il messaggio): cittadinanza, forze dell’ordine, corpi intermedi;
  • il messaggio: al di là del payoff universale – “state a casa” – il messaggio deve avere alcune caratteristiche precise. Deve essere: personalizzato e semplice da decodificare per il target; univoco, indipendentemente da chi sia l’emittente; coerente nello sviluppo narrativo nel tempo (cioè, raccontare una e una sola storia);
  • i canali: la scelta dei canali lungo i quali veicolare i messaggi è oggi quanto mai delicata, data la loro moltiplicazione social e la conseguente perdita di controllo su di essi. Un valido precetto generale esiste ed è: a ciascun target il suo canale – sempre considerando, però, la totale incontrollabilità dei social network.
Il governatore dello Stato di New York Andy Cuomo è tra i migliori esempi di comunicazione nell’emergenza coronavirus

 

Quanto sopra deve esprimersi nel rispetto di alcuni importantissimi must sui quali occorre essere chiari e netti: stiamo per parlare di qualcosa senza cui ogni comunicazione in circostanza di crisi sarebbe comunque fallimentare.

Dunque, eccoli: tempestività e correttezza. Anche il silenzio è un atto comunicativo: perciò, entro un’ora al massimo dal manifestarsi di un evento critico, occorre che vi sia una prima comunicazione ufficiale da parte dell’emittente. Questo pone un problema significativo, dato che in un arco temporale tanto ristretto, spesso non si dispone delle informazioni necessarie ad esprimersi ma, cionondimeno, non si può attendere oltre. La correttezza risiede nella veridicità del messaggio, nella sua completezza rispetto a quanto è evidente, nel mostrare un certo grado di trasparenza e una reale partecipazione empatica dell’emittente alle sorti del ricevente.

Questo, in estrema sintesi, il distillato di ciò che la teoria ha sistematizzato dall’osservazione di molti casi particolari. Resta soltanto da incontrare il convitato di pietra di tutta la storia: l’emozione umana. È il granellino di sabbia che sfascia l’intero ingranaggio; l’elefante imbizzarrito che irrompe nel negozio di cristalli, a meno che non si metta in campo l’ultimo (last), ma non marginale (but not least) accorgimento tecnico: il gioco d’anticipo.

La comunicazione di crisi è qualcosa che si prepara prima che si verifichi la crisi, senza sapere nemmeno se si verificherà. L’emozione, infatti, in circostanze di crisi, non si governa. Per questo occorre ingabbiarla, prima che si manifesti, in un reticolo fatto di: regole (la distribuzione dei ruoli), procedure (l’istituzione di war room e similari), ruoli (il portavoce) e forme (quali messaggi inviare subito, a chi e attraverso quali canali). È un programma di azione completo fin nei dettagli, che dorme nel cassetto, cullato dalla segreta speranza di non doverlo usare mai.

La crisi è un evento raro e straordinario. Che non diventi un disastro dipende, in misura non marginale, dal come, chi deve, sa comunicare nel tempo in cui la crisi è ancora viva. Questo è mestiere, non buon senso.